Uscita: controllo passaporti non residenti in Turchia (ultimo bozzetto)
Siamo in coda. Siamo in viaggio per tutto il giorno. Da via Istiqlal, parrocchia dei frati minori, fino all'aeroporto Sabiha nella parte asiatica di Istanbul. Volo per Roma Fiumicino. In treno raggiungiamo Bologna.
I cellulari sembrano la cifra dominante di questa partenza: sul bus con noi ne squilla uno ogni tanto. Tutte queste persone sono in partenza e chiudono gli ultimi contatti, le ultime urgenze, prima di spiccare il volo. Sui palazzi in costruzione campeggiano decifrabili anche per le talpe, i numeri di telefono per chi volesse acquistare un appartamento: vuoi mettere qui le tue radici? E poi ci siamo noi di passaggio. Il nostro cellulare è silenzioso finché non riusciamo ad agganciarci a qualche rete wi-fi generosa, in cambio magari di una consumazione al tavolino di un caffè o un fast-food. Come edera che si arrampica su un albero.
In aeroporto la distinzione è ancora più marcata: a noi la fila dei non residenti in uscita. Il controllo dei passaporti è in fondo il modo tecnico per dire che qui siamo stati ospiti. Ed è vero. Ma è vero anche che abbiamo raccolto la voce di tanti che ci hanno testimoniato la loro vita qua: come cittadini, come profughi, come cattolici stranieri, come cristiani in fuga. Se ci aggiungiamo anche tutti i volti incrociati qua, uomini coi baffi, un po alla Bialetti, donne con un fazzoletto in testa che più spesso è tradizione che religione, e poi la vita condotta con il lavoro, con le tante famiglie e giovani (la popolazione ha l'età media compresa tra i 31 ed i 32 anni!), che come schermi ci hanno raccontato di quanto grande sia questo albero che chiamiamo Turchia, allora possiamo dire che questo viaggio è stato ricco di umanità. E di storia, in tutte le pietre, moschee e chiese, visitati.
Dario dice che per noi questo viaggio è stato un catalizzatore, e quindi produrrà ancora per un pezzo qualcosa di buono! Gli dò ragione.
Prima di partire una buona notizia che ci dà Roberto: la famiglia di cui avete letto un paio di giorni fa, ha ottenuto il visto. Andrà in Francia. Ha perso quasi tutto, ma può tornare a vivere con speranza.
A presto!
d onde
I cellulari sembrano la cifra dominante di questa partenza: sul bus con noi ne squilla uno ogni tanto. Tutte queste persone sono in partenza e chiudono gli ultimi contatti, le ultime urgenze, prima di spiccare il volo. Sui palazzi in costruzione campeggiano decifrabili anche per le talpe, i numeri di telefono per chi volesse acquistare un appartamento: vuoi mettere qui le tue radici? E poi ci siamo noi di passaggio. Il nostro cellulare è silenzioso finché non riusciamo ad agganciarci a qualche rete wi-fi generosa, in cambio magari di una consumazione al tavolino di un caffè o un fast-food. Come edera che si arrampica su un albero.
In aeroporto la distinzione è ancora più marcata: a noi la fila dei non residenti in uscita. Il controllo dei passaporti è in fondo il modo tecnico per dire che qui siamo stati ospiti. Ed è vero. Ma è vero anche che abbiamo raccolto la voce di tanti che ci hanno testimoniato la loro vita qua: come cittadini, come profughi, come cattolici stranieri, come cristiani in fuga. Se ci aggiungiamo anche tutti i volti incrociati qua, uomini coi baffi, un po alla Bialetti, donne con un fazzoletto in testa che più spesso è tradizione che religione, e poi la vita condotta con il lavoro, con le tante famiglie e giovani (la popolazione ha l'età media compresa tra i 31 ed i 32 anni!), che come schermi ci hanno raccontato di quanto grande sia questo albero che chiamiamo Turchia, allora possiamo dire che questo viaggio è stato ricco di umanità. E di storia, in tutte le pietre, moschee e chiese, visitati.
Dario dice che per noi questo viaggio è stato un catalizzatore, e quindi produrrà ancora per un pezzo qualcosa di buono! Gli dò ragione.
Prima di partire una buona notizia che ci dà Roberto: la famiglia di cui avete letto un paio di giorni fa, ha ottenuto il visto. Andrà in Francia. Ha perso quasi tutto, ma può tornare a vivere con speranza.
A presto!
d onde
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