Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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mercoledì 27 maggio 2020

27 maggio 2020 “È lui, il Dio d’Israele, che dà forza e vigore al suo popolo” (commento a Gv17, 11b-19)

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, [Gesù, alzàti gli occhi al cielo, pregò dicendo:]
«Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi.
Quand’ero con loro, io li custodivo nel tuo nome, quello che mi hai dato, e li ho conservati, e nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si compisse la Scrittura. Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità».


Nomina sunt consequentia rerum, cioè i nomi sono conseguenti alle cose. Anche il Dante della Vita Nova cita questo proverbio, nel mondo medioevale era quasi un presupposto che nel nome fosse contenuta la proprietà intima dell’oggetto indicato. Ricordo a lezione in Università il professore di Letteratura Italiana che ci raccontava alcune etimologie: “FENESTRA” quasi “FERENS NOS EXTRA” (cioè che ci trasporta fuori). Uno dei ponti culturali tra cultura antica e medioevale è stato un testo di Isidoro di Siviglia, vescovo spagnolo morto nel 636 d.C, l'Etymologiarum sive Originum libri XX, venti raccolte tematiche di parole e della loro storia. Gesù non è interessato all’analisi accademica delle parole e dei nomi, ma vuole farci sapere che un nome racchiude un’esistenza, come quando diciamo: “io sono -nome-, non sono un numero!”. È talmente vero questo che sentendo a noi molto vicini gli animali domestici gli diamo un nome. Ho conosciuto un missionario che aveva in parrocchia anche un allevamento di mucche, i cui pastori chiamavano per nome il bestiame, e quando si rientrava nelle stalle per la mungitura, gli animali accedevano seguendo l’ordine con cui venivano chiamati. Faceva insieme sorridere e stupire questa relazione tra pastori e mucche.

“Padre santo, custodiscili nel tuo nome”. Leggiamo con tanta fretta alcuni passaggi dei vangeli che non ci rendiamo conto della loro energia e potenzialità. Ben due volte Gesù utilizza questa espressione molto particolare: “custodire nel tuo nome”. Avanti quelli che si ricordano il secondo comandamento! “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.” (Es 20, 7). Il nome di Dio è una soglia, un punto privilegiato per entrare nel suo mistero. Per gli ebrei non si pronuncia il nome di Dio, il sommo sacerdote lo proclamava solo durante il giorno del grande perdono, la festa dello “yom hakkippurim”. Pronunciare quel nome dava un nuovo accesso al popolo nell’alleanza stipulata con il Signore. Il nome di Dio rivela quale relazione ha con noi. Se ci viene indicato che è padre, allora in un modo non pienamente identico, ma vitalmente simile, entriamo nel mistero della nostra origine e del nostro significato. Proveniamo da qualcuno che ci ama, che ci vuole qui e ora e vuole stare con noi adesso, farci sapere che lui c’è! Se provo a pensare al Padre in questo tempo di pandemia, lo posso pensare come capace di soffrire accanto a chi è malato e chi ha perduto i suoi cari. Ma se mi carico di questo nome debbo pensare anche che non posso chiamare Dio Padre, se non comprendo quel legame radicale che c’è tra i figli dell’Europa e quelli del continente africano, tra i bimbi dell’Amazzonia e quelli delle nostre città. Non posso servirmi del nome di Dio finché utilmente permette lo sviluppo dei miei interessi o per coprire i miei delitti. Io non voglio un abito tenuto insieme da una cintura con scritto “Gott mit uns”! Il Signore non è padre mio più di quanto non lo sia anche tuo. Gesù ci teneva a sottolineare una sola distinzione, quella tra lui ed il Padre rispetto a quella di tutti gli altri (“Padre mio e Padre vostro”), ed il motivo è nella fede che lui sia il figlio che ci ha resi figli!

“Padre santo, custodiscili nel tuo nome”. Tante volte sorrido quando vedo aggiungere al segno della croce il classico bacino-a-Gesù che ci insegnavano le nonne, per cui si sente “nel nome del Padre…del Figlio…dello Spirito Santo…(poi rapida mano sulle labbra e schiocco di un bacino) Mchiu!”. Fa sorridere, ma forse da adulti siamo fin troppo automatici nei nostri gesti. Mi ha fatto pensare un articolo scritto da Fratel Ignazio, “convertirsi in carcere”. Ad un certo punto, parlando di come i detenuti insistevano a chiedergli con scrupolosità i modi di compiere gesti di preghiera rituale: “C’è poi il livello rituale, cioè la ripetizione quotidiana di gesti che immettono in un “ordine sacro”, quindi pulito e incorrotto rispetto al disordine impuro della vita in catene. In ciò il culto islamico ha indubbiamente una forza attrattiva, per la sua insistenza sul valore della gestualità. Ciò vale particolarmente, mi pare, per i detenuti maschi. Entra in carcere un sapiente musulmano, che chiamo da lontano per una conferenza sul valore spirituale della preghiera. Ci sono domande? Shaykh, la mano destra va sulla sinistra? Nel takbir il pollice deve toccare l’orecchio oppure no? A che distanza le gambe? Dove metto i piedi quando mi siedo dopo la prostrazione? All’inizio queste domande mi stupivano e m’imbarazzavano, pensando all’ospite che aveva parlato di tutt’altro, poi ho capito che la preghiera non è nel corpo, ma è corpo, quello incatenato. I gesti del rito operano ritualmente la rottura delle catene.” 

I piccoli gesti rituali quotidiani come segno di rottura dalla schiavitù dell’abitudine ed immissione in un altro piano di libertà. Non più un ruolo, ma un nome. Chiamare per nome Dio, lasciarci custodire nel suo nome, infine, è questo: lasciarci chiamare per nome da qualcuno che ci ama! Penso allora ai nomi nei vangeli: “Zaccheo, scendi!”. “Gesù le disse: «Maria!». Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa: Maestro!”. Penso al nome, il mio, che oggi pregando è stato invocato mentre usavo le parole di Gesù: “Padre nostro,…”

Donde

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