Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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venerdì 20 aprile 2018

“Dawla” è un libro duro, scomodo, violento. Ma contro la guerra. (Gabriele del Grande ed il libro Dawla)

Dopo 18 mesi di gestazione, e pure dopo le settimane in carcere in Turchia, per il quale si mossero molti qui in Italia per chiederne la liberazione, Gabriele del Grande, giornalista ed ex studente del nostro Ateneo bolognese (nonché partecipante al viaggio universitario del centro Donati) pubblica il libro “Dawla”, che in arabo significa Stato ed è uno dei modi in cui gli affiliati dell’Isis chiamano la propria organizzazione. Un lavoro che parte dalla testimonianza raccolta dai fuoriusciti e disertori dello Stato Islamico.


quanto segue è tratto da una intervista apparsa sul Tirreno

Del Grande, nella prefazione del libro dice che le due settimane dietro le sbarre l’ hanno aiutata nella sua ricerca. Perché?

«Volendo cercare qualcosa di positivo nei miei giorni in carcere, posso dire di aver capito davvero il peso dell’isolamento, della privazione della libertà vivendolo sulla mia pelle. Ho potuto raccontare meglio il mondo del carcere nella prima parte del libro. Dalla complicità e umanità che si crea tra detenuti così come molte dinamiche che nascono dietro le sbarre».

L’hanno cambiata quei giorni in carcere?

«No. Forse ho più sensibilità verso l’esperienza di sofferenza che è il carcere. La cosa peggiore e più umiliante è la privazione della libertà, che apprezzi veramente solo quando ti viene tolta. Il fatto di non avere contatti all’esterno chiaramente è fonte di preoccupazione. Io ero dentro e sapevo di stare bene. Fuori ci sono i tuoi cari che possono pensare di tutto. Da dieci giorni tu non dai notizie. Questa era la mia prima preoccupazione. Poi c’era il pensiero di come uscire fuori di lì» .

E lì è nata l’idea di iniziare lo sciopero della fame?

«Io non avevo alcun potere. Ero finito dentro una cella e non potevo fare nulla. L’unica cosa era rifiutare il cibo e l’acqua. Era un gesto di affermazione, politico nonché umano. Io non prendo il tuo cibo. Io voglio la libertà, non voglio il tuo cibo. Voglio uscire da qua. Fammi uscire e mangio. Mi tieni qua dentro, non mangio. E vediamo che succede. Per me era come ribaltare la situazione di potere».

Un anno dopo, ha capito il motivo del suo arresto?

«Ancora oggi non ho alcuna carta in mano, niente. Ma quando un giornalista turco o straniero va in una zona di confine dove la Turchia fa passare jihadisti che vanno in Siria, fa passare le armi, spara sui rifugiati che scappano e li ammazza sul confine, non ci devono essere occhi o testimoni. È molto semplice. Quindi si inventano la scusa: non hai la carta, non hai un permessino e ti mandano via. Perché quelle storie non escano. Dopodiché io sono contento perché sono tornato a casa anche con la storia e la registrazione che stavo effettuando quel giorno. Anzi, con altro materiale. Ma nel Paese nulla è cambiato: due mesi dopo la mia liberazione Taner Kılıç, presidente di Amnesty International Turchia, è stato arrestato. L’accusa, falsa, è di far parte del movimento guidato da Fethullah Gülen, che secondo le autorità turche ha ideato il fallito colpo di stato del luglio 2016».


«Esattamente. Il libro ti aiuta a ripercorrere anche la storia del conflitto siriano. Ma lo fa da un punto di vista scomodo: quello dei carnefici. E condanna la guerra, intesa come mero strumento di dominio, affermazione del potere. La guerra non è uno strumento di repressione del reato. Quando Donald Trump dice di dover punire Bashar al-Assad perché ha usato il gas con i bambini capisci dal libro che sono frottole. L’unico obiettivo è il controllo di un Paese, di una risorsa. E nel mezzo a questo scontro la gente muore. La prova di questa ipocrisia è di pochi giorni fa: la Turchia alleata degli Stati Uniti ha bombardato i curdi a Brin, uccidendo 200 civili compresi molti bambini. E Trump non si è minimamente lamentato. Per questo mi auguro che il mio libro possa aiutare a comprendere lo Stato Islamico, raccontato dai disertori e apra gli occhi sulla situazione attuale. Perché si dica finalmente mai più guerre».

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