Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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venerdì 13 aprile 2018

Appunti di un Ferragosto tanzaniano (di Daniele, antropologo studente Viaggio 2017)

Antropologia: per me è stato come respirare una boccata di libertà.
Sono al primo anno e gli esami procedono bene; tuttavia c’è qualcosa che mi lascia insoddisfatto. Sono uno di quelli che non ama le sviolinate concettuali e preferisce toccare le cose con mano.



Così un giorno camminando per strada leggo: “Viaggio universitario in Africa” e mi dico: “Ecco! È ora di partire”.

Allora è deciso: Tanzania sia! L’iphone e la reflex rimangono a casa, porto con me uno zaino per l’essenziale, le tante nozioni da manuale e una curiosità irrefrenabile.

Eccomi arrivato, è il 15 agosto e sono seduto a fare colazione mentre intorno a me regna la calma. Lo scenario non è quello di un rovente giorno di festa, al contrario si respira l’aria di una fresca mattinata di fine inverno, una come tante altre.

Il primo scoglio da superare è quello di sentirsi irrimediabilmente bianco ed incompatibile con l’ambiente in cui si è catapultati.
Dove sono finito? Spaesato, cerco disperatamente di aggrapparmi alle poche certezze che riaffiorano nella mia mente.

A circa seimila chilometri da casa mia, la Tanzania si trova sulla costa Est dell’Africa. Bagnata dalle acque del lago Vittoria, ospita inoltre la montagna più alta del continente, il Kilimangiaro.

La sua rilevanza socio-politica è degna di nota: ha dato i natali a uno dei personaggi politici più importanti di sempre, vale a dire Julius Nyerere, padre fondatore del Paese e profondamente impegnato in quello che viene definito socialismo africano.

E’ anche il luogo che ha dato origine all’aneddoto storico ottocentesco in cui si narra dell’incontro avvenuto tra il Dr. Livingstone e Mr. Stanley, due dei primi avventurieri inglesi incaricati di mappare l’entroterra inesplorato –“Dr. Livingstone I suppose”.

Immerso nei pensieri, tutto intorno a me sembra fermarsi. Ma che ore sono? Da quanto sono qui?

Il tempo. Passiamo tutta la vita a cercare di dominarlo e alla fine vince sempre lui. Forse per questa ragione uno fra gli aspetti che più mi incuriosisce nei miei viaggi è proprio capire come esso venga vissuto e percepito dai locali.

Nel descrivere la sensazione che ho provato in quei momenti, Ryszard Kapuściński – giornalista, saggista, e viaggiatore polacco – forse può aiutarmi. Egli parte dalla definizione che Newton, secondo una visione prettamente occidentale, ne diede: “il tempo assoluto, vero, matematico scorre in sè per sè in virtù della sua stessa natura, uniformemente e senza dipendere da alcun fattore esterno”[1].

Tuttavia ciò che ho vissuto, il modo di vivere e le testimonianze delle tante persone tanzaniane che ho incontrato non hanno fatto altro che trasmettermi un punto di vista diametralmente opposto, lo stesso che Kapuściński descrive così: “per gli africani si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva [..] il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare”[2].

Tempo non c’è tempo sempre più in affanno
inseguo il nostro tempo vuoto di senso senso di vuoto
(Battiato, Il vuoto)

La giornata prosegue e mi trovo seduto sul marciapiede della capitale, Dar es Salaam. Il traffico scorre fitto ma non frenetico e le macchine ti lasciano attraversare tranquillamente.

Sono confuso: intorno a me suoni e forme diverse. I clacson la fanno da padroni, mentre si susseguono ragazzini con ceste in testa che cercano di vendermi qualsiasi cosa. Spiccano edifici malandati ma anche tanti grattacieli imponenti, molti dei quali in cantiere: “Chi li ha costruiti? Perché?”, sono le domande che mi risuonano in testa.

Quando si pensa all’Africa e al colonialismo immediatamente ci viene in mente lo scramble for Africa, ovvero la corsa per accaparrarsi una fetta del continente da parte dei paesi europei.

La spartizione ha avuto luogo a Berlino, nella famosa conferenza del 1884 a cui non partecipò nessun leader politico africano. Ma questa è storia.
Il presente invece è fatto dalle molte ditte di costruzione cinesi che arredano il paesaggio urbano con grattacieli e strade e che perforano il sottosuolo alla ricerca di minerali preziosi.

E’ inquietante vedere come il rapporto di disparità con l’Occidente stia andando avanti imperterrito. A cambiare sono stati solo gli attori in scena e né l’indipendenza del 1963, né l’affacciarsi del paese nell’economia globale, hanno cambiato le cose. Tutti questi pensieri non fanno che scoraggiarmi.



Mentre proseguo il mio ferragosto alla ricerca di risposte, è l’incontro con un ragazzo che darà improvvisamente senso alla mia giornata. Si chiama Joseph, ha circa 30 anni ed è laureato in storia.

Stavo pranzando in un fast-food quando entra e mi saluta invitandomi a fare due chiacchiere, con una naturalezza che improvvisamente mi ha fatto sentire “meno bianco”. Senza esitare accetto. Cominciamo a chiacchierare e immediatamente gli riverso addosso tutte le mie perplessità.

Joseph in poco tempo distrugge tutte le mezze verità che mi ero costruito: lo stile di vita africano, basato sul pole pole (letteralmente, piano piano) intrappola i tanzaniani in quel rapporto subalterno con il resto del mondo che, invece, è scaltro e fulmineo a indirizzare gli eventi secondo i propri interessi.

Ricordo perfettamente gli istanti in cui pronunciava quelle parole, mentre eravamo seduti a un tavolo completamente ricoperto dai suoi libri, appunti e dal suo computer. Come amici di lunga data passiamo insieme l’intero pomeriggio.

Scopro il suo amore per la storia e per la lettura. Jospeh, seppur intrappolato in una violenza strutturale – ovvero l’impossibilità di esprimere l’agentività a causa di fattori indiretti -, crede con tutto se stesso nell’importanza dell’istruzione. Solo grazie ad essa gli africani potranno essere più consapevoli del proprio destino. Questo è quello che afferma con molta veemenza, guardandomi dritto in faccia e spalancando gli occhi.

Dopo due giorni passati con lui, Joseph ha finito per convincere anche me. Mi sono realmente reso conto che l’approccio paternalistico con cui guardiamo alla storia africana non fa altro che perpetrare gli stessi meccanismi che vorrebbe risolvere.


All’interno del Livingston museum, Joseph indossa le catene usate durante la tratta degli schiavi
Ciò a cui vorrei dare più rilevanza è il valore incommensurabile del viaggio, e con esso le persone che si incrociano durante il cammino. L’incontro con l’altro è spesso fondamentale per farci vedere il mondo da un’altra prospettiva e per far cadere tutti i castelli di sabbia che costruiamo con tanta maestria. Esattamente com’è successo durante il mio mese in Africa e nei giorni passati con Joseph.

Come è noto questo è uno dei cardini della materia antropologica. Dando voce agli attori sociali è possibile sfatare quelli che il più delle volte si rivelano falsi miti. L’esperto è il soggetto, l’unico che può aiutarci a decostruire la realtà e ad accompagnarci in un percorso di comprensione reciproca.

Andando a ritroso nella storia il primo grande viaggiatore – considerato il padre fondatore della disciplina antropologica e del relativismo culturale – è Erodoto. Egli, grazie alle sue numerose esplorazioni ha compreso per primo che il nostro vicino è meno cattivo di quanto immaginiamo, e per questo fu addirittura accusato di essere un filobarbaro.

Partire, camminare, toccare, stringere mani, ascoltare voci, scrutare paesaggi nuovi, rimanere inebriati da odori che non ci sono familiari: sono piccole azioni che possono avvicinarci all’altro e farci capire che nessun luogo è lontano.

Viaggiare ci rende più intelligenti, più tolleranti, più profondi e anche più coraggiosi: è esattamente quello che ci vuole per renderci conto che infondo siamo solo una piccola parte di un unico tutto.

Intanto è arrivato il tramonto, il momento della giornata che più mi affascina. Il tempo sembra essersi fermato, come immobile. Mi risulta però impossibile tradurre in parole quella sensazione di pace interiore e di stupore che mi pervadeva guardando quell’enorme palla rossa perdersi all’orizzonte, tra un baobab e una frotta di bambini giocosi.

Ma per restarne incantati è sufficiente fare un biglietto aereo e iniziare un fantastico viaggio verso la Tanzania. Joseph sarà sicuramente lì ad aspettarvi, con il sorriso in bocca, ed entusiasta di sapere qualcosa in più di tutta quella parte di mondo che conosce solo dai libri.


Fonti:

[1] Ryszard Kapuściński, Ebano, Feltrinelli (2000), pag. 20

[2] ibidem

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