Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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lunedì 25 dicembre 2017

"Si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio" (l'omelia di Papa Francesco della notte di Natale)

«In mezzo all’oscurità di una città che non ha spazio né posto per il forestiero che viene da lontano», sui passi di una coppia di profughi «costretti a lasciare la propria terra», con alle spalle il pericolo di un Erode che, oggi come allora, per potere e ricchezze non esita a «versare sangue innocente», circondato da un gruppo di pastori «impuri» per la società dell'epoca: è così che nasce Gesù Cristo. È così che nel mondo «si accende la scintilla rivoluzionaria della tenerezza di Dio».


Papa Francesco celebra la veglia della notte di Natale e la dedica alle centinaia di migliaia di persone la cui storia si intreccia con quella dei giovani Maria e Giuseppe costretti ad abbandonare terra, casa e famiglia per fuggire lontano.

«Nei passi di Giuseppe e Maria si nascondono tanti passi», dice Papa Francesco in una intensa omelia. «Vediamo le orme di intere famiglie che oggi si vedono obbligate a partire. Vediamo le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligate a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra. In molti casi questa partenza è carica di speranza, carica di futuro; in molti altri, questa partenza ha un nome solo: sopravvivenza». «Sopravvivere», cioè, «agli Erode di turno che per imporre il loro potere e accrescere le loro ricchezze non hanno alcun problema a versare sangue innocente».

Maria e Giuseppe devono andare via: «Un tragitto per niente comodo né facile per una giovane coppia che stava per avere un bambino…», commenta Bergoglio. «Nel cuore erano pieni di speranza e di futuro a causa del bambino che stava per venire; i loro passi invece erano carichi delle incertezze e dei pericoli propri di chi deve lasciare la sua casa».

Superato un ostacolo, eccone un altro: l’arrivo a Betlemme in una città «che non li aspettava, una terra dove per loro non c’era posto», «in mezzo all’oscurità di una città in pieno movimento e che in questo caso sembrerebbe volersi costruire voltando le spalle agli altri». Lì nasce il Figlio di Dio, e lì «a Betlemme si è creata una piccola apertura per quelli che hanno perso la terra, la patria, i sogni; persino per quelli che hanno ceduto all’asfissia prodotta da una vita rinchiusa», rileva il Papa.

In quella notte di secoli fa, durante la quale «tutto diventava fonte di speranza», «Colui che non aveva un posto per nascere viene annunciato a quelli che non avevano posto alle tavole e nelle vie della città»: tutti i pastori, che «per il loro lavoro» dovevano «vivere ai margini della società». «Le loro condizioni di vita, i luoghi in cui erano obbligati a stare, impedivano loro di osservare tutte le prescrizioni rituali di purificazione religiosa e, perciò, erano considerati impuri. La loro pelle, i loro vestiti, l’odore, il modo di parlare, l’origine li tradiva. Tutto in loro generava diffidenza. Uomini e donne da cui bisognava stare lontani, avere timore; li si considerava pagani tra i credenti, peccatori tra i giusti, stranieri tra i cittadini».

A questa gente di second’ordine secondo la mentalità dell’epoca l’angelo annuncia la «grande gioia» della nascita del Messia. Sono loro, dopo Maria e Giuseppe, «i primi ad abbracciare Colui che viene a dare a tutti noi il documento di cittadinanza. Colui che nella sua povertà e piccolezza denuncia e manifesta che il vero potere e l’autentica libertà sono quelli che onorano e soccorrono la fragilità del più debole», ricorda Francesco.

E invita in questa notte «a condividere, a celebrare e ad annunciare» la loro stessa gioia; la gioia «con cui Dio, nella sua infinita misericordia, ha abbracciato noi pagani, peccatori e stranieri, e ci spinge a fare lo stesso».

«La fede di questa notte ci porta a riconoscere Dio presente in tutte le situazioni in cui lo crediamo assente», afferma il Pontefice. «Egli sta nel visitatore indiscreto, tante volte irriconoscibile, che cammina per le nostre città, nei nostri quartieri, viaggiando sui nostri autobus, bussando alle nostre porte».
Questa stessa fede «spinge a dare spazio ad una nuova immaginazione sociale, a non avere paura di sperimentare nuove forme di relazione in cui nessuno debba sentire che in questa terra non ha un posto. Natale - aggiunge Bergoglio - è tempo per trasformare la forza della paura in forza della carità, in forza per una nuova immaginazione della carità. La carità che non si abitua all’ingiustizia come fosse naturale, ma ha il coraggio, in mezzo a tensioni e conflitti, di farsi “casa del pane”, terra di ospitalità».
Bisogna superare ogni timore e «aprire, anzi spalancare le porte a Cristo», come esortava Giovanni Paolo II che Francesco cita nell’omelia. «Nel Bambino di Betlemme, Dio ci viene incontro per renderci protagonisti della vita che ci circonda. Si offre perché lo prendiamo tra le braccia, perché lo solleviamo e lo abbracciamo. Perché in Lui non abbiamo paura di prendere tra le braccia, sollevare e abbracciare l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato».

«Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo», insiste Papa Francesco. «In questo Bambino Dio ci invita a farci carico della speranza. Ci invita a farci sentinelle per molti che hanno ceduto sotto il peso della desolazion e che nasce dal trovare tante porte chiuse. In questo Bambino, Dio ci rende protagonisti della sua ospitalità».

La preghiera del Vescovo di Roma è perciò che il pianto di questo neonato «ci svegli dalla nostra indifferenza» e «apra i nostri occhi davanti a chi soffre». La sua tenerezza, conclude, «risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite».  

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