Smantellato il Gran Ghetto: ora la sfida più grande

“Riduzione in schiavitù” l’accusa.
Siamo a San Severo, provincia di Foggia. È lì che donne e uomini,
proveniente in larga parte dall’Africa subsahariana, hanno perso la
dignità, diventando numeri nelle mani dei caporali e dei capineri,
la sola forma di intermediazione agricola ormai vigente nelle
campagne della Capitanata: è il business del pomodoro, dell’oro
rosso, che ha attirato in quelle baracche migliaia di essere umani.
Fino a tremila nei mesi estivi.
Per avere una idea sommaria della
baraccopoli di cui stiamo parlando riportiamo una frase del sociologo
barese Leonardo Palmisano in Ghetto Italia: «Finché non s’è
messo piede nel Gran Ghetto – scriveva –, non si può avere idea
di cosa sia un inferno molto ben organizzato». Un piccola città nel
degrado, fatta di legno, lamiere e plastica dove tutto si pagava e
tutto era in vendita, a partire dai corpi. Lavoro di braccia
sfruttato nei campi, sesso a pagamento. Morti misteriose.
La sera di giovedì 2 marzo è finita.
Le fiamme salvano alcuni foglietti: pezzi di libro mastro sui cui i
capineri appuntavano debiti e crediti dei braccianti. 50 euro per un
materasso nel Gran Ghetto, 5 euro per il trasporto nei campi, 50
centesimi per ricaricare il cellulare, 1,50 euro per ogni cassone di
pomodoro raccolto. A conti fatti, nelle tasche dei lavoratori
stranieri restava poco e niente. «Peggio degli slum di Nairobi»,
l’ha descritta l’eurodeputata Eleonora Forenza.
È finita. Nei centri di accoglienza i
migranti vagano spaesati, ma puliti e rifocillati. “Lavoro”, il
loro unico pensiero. Per politica, istituzioni, sindacati, aziende si
apre ora la sfida più grande: riscrivere il patto etico del lavoro
nei campi. È questa la sola strada verso la dignità e la libertà
dell’essere umano in una provincia, una regione, un Paese che
voglia definirsi civile.
tratto da Città Nuova
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