Caro San Giuseppe,
Papa Francesco
"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco
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lunedì 19 marzo 2018
Lettera a San Giuseppe: non c'è più tempo per la carezza (don Tonino Bello)
scusami se approfitto della tua ospitalità e mi fermo per
una mezz’oretta nella tua bottega di falegname per scambiare
quattro chiacchiere con te.
Non voglio farti perdere tempo. Vedo che
ne hai così poco, e la mole di lavoro ti sovrasta. Perciò, tu
continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una
panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie
confidenze.
Non preoccuparti neppure di rispondermi.
So, del resto
che sei l’uomo del silenzio, e consegni i tuoi pensieri, profondi
come le notti d’Oriente, all’eloquenza dei gesti più che a
quella delle parole. Vedi, un tempo anche da noi le botteghe degli
artigiani erano il ritrovo feriale degli umili, vi si parlava di
tutto, di affari, di donne, di amori, delle stagioni, della vita,
della morte. Le cronache di paese trovavano lì la loro versione
ufficiale, e i redattori dell’innocuo pettegolezzo quotidiano
affidavano alle rapidissime rotative degli avventori la diffusione
delle ultime notizie.
Il tempo passava così lento, che gli
intervalli scanditi ogni quarto d’ora dalla torre campanaria
sembravano un’eternità, ma forse era proprio questa lusinga di
eternità a rendere preziosa un’opera di artigianato e a darle
vita era proprio quella angosciante porzione di tempo che vi veniva
rinchiusa. Sembrava che la materia prima di una seggiola o di un
vomere non fosse tanto il legno od il ferro, ma il tempo; e che la
fatica del fabbro o del carpentiere, del sarto o del calzolaio fosse
quello di addomesticare i giorni comprimendoli nella materia e
crearsi per un istinto di conservazione riserve di tempo negli otri
delle cose prodotti dalle sue mani.
Il tempo allora era imprigionato
nella materia come l’anima nel corpo, ruggiva dentro un oggetto e
gli dava movenze di vita se non proprio l’accento della parola. Le
cose nascevano perciò lentamente e con i tratti di una fisionomia
irripetibile. Come un figlio, prima un atto d’amore, dolcissimo e
breve, poi
nove mesi.
Oggi purtroppo qui da noi di botteghe artigiane
ne sono rimaste veramente poche. Al loro posto sono subentrate le
grandi aziende di consumo: non si genera più, o meglio si
concepisce solo l’archetipo, ma senza passione e con molto calcolo.
L’archetipo poi, questo sordido ermafrodita, riproduce con ritmi di
allucinante rapidità, squallidi sosia, con l’unico desiderio che
campino poco. Ed eccoli lì, allineati, questi elegantissimi
mostriciattoli dalla vita breve, belli, ma senz’anima, perfetti, ma senza identità, lucidi,
ma indistinti. Non parlano perché non sono frutto di amore, non
vibrano, perché nelle loro vene non ci sono più i fremiti del
tempo prigioniero.
Si, Giuseppe! È proprio questa anemia di tempo
che rende gelide le nostre opere.
Ecco, attraverso l’uscio
socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno
bellissimo, senza cuciture, tutto tessuto d’un pezzo da cima a
fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù, ma non per quando
nascerà, per quando sarà grande: gliela prepara fin d’ora,
prima già che lui nasca.
Io non me ne intendo, e perciò non so se
gli arabeschi che disegna con l’ago siano fatti a punto erba o a
punto ombra. Forse sono fatti a punto a croce.
Una cosa, però,
intuisco: che quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui,
l’eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile
tempo di sua Madre.
Povera Maria. A suo figlio, vorrebbe dargliela
tutta intera la sua vita. Ma non può. Allora gliene regala una
porzione, fin da adesso, racchiusa nello scrigno di quella
tunica.
Forse un giorno, proprio per questo, sulla vetta del Golgota,
gli uomini della Croce non vorranno lacerarla.
Oggi da noi, anche i
ricami vengono fatti in serie.
C’è una ditta, la quale ha
inventato una macchina che fa i punti perfetti, e non soltanto
quelli!
E se tu dopo aver comprato in un negozio della città di san
Francesco, un guanciale disegnato o a “punto assisi”, la notte
pensi di poggiare il capo su un frammento di tempo regalatoti da
un’anonima ricamatrice, bella come Santa Chiara, ti illudi
amaramente.
Questo è forse il sacrilegio più grave della nostra
civiltà. La distruzione del tempo, e col tempo dell’amore, della
fantasia, della bellezza, dell’arte.
Abbiamo creduto che per fare
un tavolo sia sufficiente il legno!
Oh Dio! Riusciamo pure ad
ammettere che per fare il legno ci vuole l’albero, e che per fare
l’albero ci vuole il seme. E perfino che per fare il seme ci vuole
il fiore. Ma non abbiamo più il coraggio di concludere che per fare
un tavolo ci vuole un fiore! E lo lasciamo dire solo ai poeti!
Ma se
oggi qui da noi di botteghe artigiane è rimasto solo qualche
nostalgico scampolo, non è tanto perché non si genera più,
quanto perché ormai non si ripara più nulla.
Vedi Giuseppe in
questi pochi minuti da che sto parlando con te sono già entrati
nella tua bottega un bambino in lacrime con la ruzzola a cui rifare
l’asse, una vecchietta con la scranna da impagliare di nuovo, un
contadino con un mastello a cui si è infracidito una doga, un
carrettiere col mozzo di una ruota che si è sgranato dai raggi.
Da
noi non si usa più!
Quando un oggetto si è anche leggermente
incrinato nella sua funzionalità, lo si mette da parte senza
appello. Del resto se nelle sue viscere non racchiude un’anima
d’amore, per quale scopo accanirsi a ridare la vita ad un corpo
già nato cadavere.
La nostra la chiamiamo perciò la civiltà
dell’usa e getta!
Al televisore che sta in cucina si è fulminato
un relè, niente paura! Viene messo da parte e sostituito con un
altro che ha il video registratore incorporato.
Alla bambola che
sembra sia stata sorpresa da un colpo apoplettico perché si sono
scaricate le pile, poco importa! Portala al bidone della spazzatura!
Ne acquisteremo una di quelle che sono vendute con tanto di
certificato di nascita, si sposano,
fanno all’amore e vanno nei
campeggi estivi.
Al fucile giocattolo regalato al bambino il giorno
di natale è caduto il grilletto? Presto fatto! Per la Befana sarà
pronto un mitra col nastro delle pallottole attorno al carrello, o
addirittura un sottomarino lanciamissili con la verifica
computerizzata degli obiettivi colpiti.
Alla giacca di fustagno è
caduto un bottone? Al soprabito di velluto si è scucita la fodera?
Al reggiseno di pizzo si è allentato l’elastico? A un paio di
sandali si è staccata la fibbia? Non vale la spesa ripararli! Porta
via al macero, senza scrupoli. Anzi no! Un momento! Tra
giorni passeranno quelli della Caritas parrocchiale. Così ci
liberiamo il guardaroba da ingombri fastidiosi, e poi, diamine!
Aiutiamo la gente!facendo contento il Signore il quale ha detto che i
poveri li abbiamo sempre con noi.
Un angolo di paradiso, un giorno,
non ce lo negherà certamente, visto che ce lo stiamo accaparrando,
sia pure con i riciclaggi delle nostre cose superflue.
Ma che c’è
Giuseppe! Vedo che ti sei fermato col martello, brandito a mezz’aria,
e i tuoi occhi dolenti mi trafiggono con uno sguardo di disgusto.
Ho
capito!
Quel tuo sguardo vuol dire: “mi fate pietà”!
Altro che
usa e getta, valicando davvero ogni limite, avete invertito la fase
in “getta e usa”, visto che siete così abbietti da snaturare
perfino l’intima essenza della carità, piegandola alla vostra
libidine di possesso. Si, hai ragione falegname di Nazaret. Siamo
proprio giunti a tale grado di perfidia, che pretendiamo di elevare a
livelli di purezza i liquami delle nostre cupidigie.
Traffichiamo
persino le scorie del nostro egoismo, verniciamo di solidarietà gli
scarti del nostro tornaconto, e con una oscena mascherata di
gratuità ci illudiamo di riscattarci dal nostro interminabile
inverno dell’amore.
E guarda che non ti ho detto tutto! Perché ho
ancora paura di quel martello che è rimasto brandito a mezz’aria.
Se infatti dovessi raccontarti di quelle operazioni filantropiche
tenute a battesimo dalla televisione, son sicuro che metterei a dura
prova la tua tenuta di “uomo non-violento”.
Che vuoi farci!
Questi si, sono i misteri buffi, di cui dovremmo vergognarci e contro
cui dovremmo ribellarci e nel cui oceano stiamo tutti facendo
naufragio.
Ma se oggi qui da noi, in questo crepuscolo tormentato del
secolo ventesimo, le botteghe artigiane sono pressoché sparite non
è solo perché non si genera più e neppure perché non si
ripara più nulla. È perché non c’è più tempo per la
carezza. Mi spiego!
Vedi Giuseppe, da quando sono entrato nella tua
bottega, quante carezze non hai fatto su quel legno denudato dalla
pialla!
Tutte le volte che l’hai strisciato con il ferro, subito vi
sei passato sopra con la mano, leggera come la luce che trema sulle
acque: non saprei bene se per proteggerne la verecondia; o per
velargli, un attimo appena, la bianca intimità; o per compensare
con un gesto di tenerezza il trauma della violenza. E anche ora,
mentre ti parlo, passi e ripassi con le dita sugli spigoli smussati
dallo scalpello, e ne levighi le asprezze, col medesimo amore con cui
la pecora madre asciuga con la lingua l’agnello appena nato.
Poi
cicatrizzi le ferite del legno, provocate dal trapano e dai chiodi,
con gli stucchi, canforati come unguenti d’Arabia. Vi stendi sopra
il balsamo delle vernici, che impregnano l’aria d’un acre
profumo, e continui a blandire con la colla gli assi di faggio che
ora luccicano come uno specchio. Quante carezze: con le palme della
mano, con i pennelli, con le spatole, con gli occhi. Sì, anche con
gli occhi, perché, ora che hai finito una culla, sei tu che non ti
stanchi di cullarla con lo sguardo. Oggi purtroppo da noi, non si
carezza più, si consuma solo, anzi si concupisce. Le mani incapaci
di dono, sono divenute artigli, le braccia troppo lunghe per amplessi
oblativi, si sono ridotte a rostri che uncinano, senza pietà, gli
occhi prosciugati di lacrime ed inabili alla contemplazione, si sono
fatti rapaci, lo sguardo trasuda libidine di possesso, e il dogma
dell’usa e getta è divenuto il cardine di un cinico sistema
binario che regola le aritmetiche del tornaconto e
gestisce
l’ufficio ragioneria dei nostri comportamenti quotidiani. Perciò
si violenta tutto! E non soltanto le cose, il cui spessore di
sostanza si è così rinsecchito da lasciare vibrare soltanto
l’immagine esteriore.
Ma anche le persone! Il corpo, degradato a
merce di scambio, è divenuto spazio pubblicitario e manichino per
prodotti di consumo! L’eros mercantile corrode alla radice i
rapporti interumani, sgretola la comunione, frantuma l’intimità,
irride la famiglia, commercializza la donna. E con i postulati di
marketing degli spot televisivi, spersonalizza irrimediabilmente la
sessualità, riducendola ad una variabile della cupidigia di
potere.
Non c’è da meravigliarsi perciò
che tra le allucinanti simbologie di questa civiltà dei consumi
Rambo costituisca la testa di serie nelle graduatorie più gettonate
della violenza. E tanto meno c’è da scandalizzarci, se stanno
così le cose che il Presidente Regan abbia detto, sia pure
scherzando, che dopo aver visto Rambo, sa che cosa fare la prossima
volta che dei cittadini americani verranno presi in ostaggio.
Vedo,
però che si fa tardi. Il sole, calando sulla pianura di Esdrelon,
illumina di porpora gli ultimi contrafforti dei monti di Galilea. E
io ancora non ti ho detto la ragione fondamentale per la quale sono
venuto qui da te.
No, non è per affliggerti con le lamentazioni
mistiche sulla cattiveria dei tempi, e neppure per evitare gli
incroci pericolosi della mia civiltà, che ho trovato rifugio
sentimentale nell’oasi della tua bottega, dove, tra tenaglie, lime
e seghetti, attaccati in bella mostra alle pareti, sono rimasti
attaccati anche i ricordi del tempo che fu; anzi, se ti ho dato
quest’impressione di fuga all’indietro non giudicarmi un
introverso pure tu, vittima magari di un raptus da regressione;
bastano già gli psicanalisti che abbiamo da noi, di fronte ai quali
devi difenderti dai tuoi stessi sentimenti, se non vuoi finire nella
morsa della loro logica, impietosa, almeno quanto la morsa che sta
sul tuo bancone di falegname!
Mio caro San Giuseppe, io sono venuto
qui, soprattutto per conoscerti meglio come sposo di Maria, come
padre di Gesù, e come capo di una famiglia per la quale hai
consacrato tutta la vita.
E ti dico subito che la formula di
condivisione espressa da te, come marito di una vergine, la trama di
gratuità realizzata come padre del Cristo, e lo stile di servizio
messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre
così incuriosito, che ora non solo vorrei saperne qualcosa di più,
ma mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi
comportamentali siano trasferibili nella nostra società dell’usa
e getta.
Dimmi, Giuseppe, quand’è che hai conosciuto Maria? Forse
un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio
con l’anfora sul capo e con la mano sul fianco, snello come lo
stelo di un fiordaliso?
O forse un giorno di sabato, mentre con le
fanciulle di Nazareth conversava in disparte, sotto l’arco della
sinagoga?
O forse un meriggio d’estate, in un campo di grano,
mentre abbassando gli occhi splendidi, per non rivelare il pudore
della povertà, si adattava all’umiliante mestiere di
spigolatrice?
Quando ti ha ricambiato il sorriso e ti ha sfiorato il
capo con la prima carezza, che forse era la sua prima benedizione e
tu non lo sapevi?
E la notte tu hai intriso il cuscino con lacrime di
felicità.
Ti scriveva lettere d’amore? Forse si! E il sorriso con
cui accompagni il cenno degli occhi verso l’armadio delle tinte e
delle vernici mi fa capire che in uno di quei barattoli vuoti, che
ormai non si aprono più, ne conservi ancora qualcuna!
Poi una notte
hai preso il coraggio a due mani e sei andato sotto la sua finestra,
profumata di basilico e di menta e le hai cantato sommessamente le
strofe del Cantico dei Cantici: “Alzati amica mia, mia bella e
vieni, perché ecco, l’inverno è passato, è cessata la
pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo
del canto è tornato, e la voce della tortora ancora si fa sentire
nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le
viti fiorite spandono fragranza. Alzati amica mia, mia bella e vieni!
O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli
dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tuia voce, perché
la tua voce è soave e il tuo viso è leggiadro.
E la tua amica, la
tua bella si è alzata davvero, è venuta sulla strada, facendoti
trasalire, ti ha preso la mano nella sua e mentre il cuore ti
scoppiava nel petto, ti ha confidato lì, sotto le stelle, un grande
segreto.
Solo tu, il sognatore, potevi capirla. Ti ha parlato di
Jahvè. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli
e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande
dell’universo e più alto del firmamento che vi sovrastava.
Poi
ti ha chiesto di uscire dalla sua vita, di dirle addio e di
dimenticarla per sempre.
Fu allora che la stringesti per la prima
volta al cuore e le dicesti tremando: “Per me, rinuncio volentieri
ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria, purché mi faccia
stare con te”. Lei ti rispose di sì, e tu le sfiorasti il grembo
con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa
nascente.
Spero che dietro quegli assi di castagno appoggiati alla
parete non ci sia nascosto qualche rabbino, esperto di teologia, se
no troverà anche lui un buon capo d’accusa per deferirmi davanti
all’“arcisinagogo”!
Ma io penso che hai avuto più
coraggio tu a condividere il progetto di Maria, di quanto ne abbia
avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto
sull’onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla
fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto
più speranza. La carità ha fatto il resto in te e in lei.
Ma ora
Giuseppe, cambiamo discorso!
Sta arrivando una donna dal forno. Ecco,
ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di
fragranza.
Frattanto colgo il destro di questa interruzione per
osservare che sono davvero fortunato, dal momento che il Signore mi
sta mettendo sotto gli occhi i simboli giusti nel momento giusto!
Stavamo parlando di condivisione, ed ecco il segno più classico: il
pane!
Si direbbe che il pane, più che per nutrire, è nato per
essere condiviso: con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con
gli ospiti di passaggio! Spezzato sulla tavola, cementa la comunione
dei commensali; deposto nel fondo di una bisaccia riconcilia il
viandante con la vita; offerto in elemosina al mendico, gli regala
un’esperienza, sia pure fugace di fraternità; donato a chi bussa
di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la
fame dello spirito, che è fame di solidarietà; raccolto nelle
sporte, dopo un pasto miracolo sull’erba verde, sta ad indicare che
a chi sa fare la divisione, gli riesce bene anche la
moltiplicazione!
E’ proprio vero, Giuseppe. Il pane è il
sacramento più giusto del tuo vincolo con Maria. Lei morde ogni
giorno quello di frumento, procuratole da te col sudore della fronte.
Tu mordi il pane del tuo destino che l’ha resa Madre del Figlio di
Dio.
E’ per questo che per noi, o falegname di Nazareth, tu sei
provocatore di condivisioni generose e assurde, appassionate e
temerarie, al centro della sapienza e al limite della
follia.
Insegnaci, allora, a condividere il pane con i fratelli
poveri, in questo nostro mondo, dove purtroppo muoiono ancora più
di cinquanta milioni di persone per fame.
Il pane da segno di
comunione, si è trasformato in simbolo della scomunica, ed è
divenuto il discrimine sul cui filo passa la logica della guerra:
viene accaparrato dagli ingordi, non condiviso dai poveri, ammuffisce
nelle credenze degli avidi, non allieta la madia degli umili, si
accumula negli artigli di pochi, non si distribuisce sulle bocche di
tutti! Sovrabbonda nei bidoni della spazzatura d’Europa, ma è
sparito sulle mense desolate dell’Eritrea. Trabocca senza pudore
negli opulenti cenoni del Nord, ma è sogno proibito per tutti i Sud
della Terra!
Viene diviso anche; sì, viene diviso, come gesto
munifico di regalità, ma non viene restituito a chi ne ha diritto,
con i canti gregoriani della penitenza e in nome della giustizia!
Hai
sentito mai dire, Giuseppe, che se i ghiacciai eterni dell’Ermon,
si sciogliessero d’incanto, le acque sprofonderebbero a valle con
pro rose tracimazioni, il lago di Tiberiade diventerebbe un mare, il
giordano strariperebbe, rompendo gli argini, e l’arsura dell’intera
Palestina, verrebbe per sempre placata!
E allora! Visto che presso
l’Altissimo, ce ne sono poco di santi così referenziati come te,
perché non provochi un fenomeno simile, scongelando le ricchezze
dalle mani di pochi e travolgendo la terra in un cataclisma di pane.
E se questo ti sembra un miracolo troppo grosso per i tuoi mezzi,
perché almeno non persuadi la Chiesa del Duemila a farsi carico con
più fiducia della sorte degli ultimi, non solo spartendo le sue
ricchezze con i poveri, ma soprattutto condividendo la miseria degli
esclusi.
Oggi più che mai vogliamo sperimentarti così, quale
Protector Sancte Ecclesiae, Protettore della chiesa dei derelitti,
degli emarginati, dei violentati, dei palestinesi, dei marocchini,
dei terzomondiari, degli sfrattati, degli sfruttati, dei prigionieri,
e
degli inquilini di tutte le più squallide periferie
dell’umanità.
Capisco che se non mi rispondi non è solo perché
tu sei l’uomo del silenzio, ma anche perché la fornaia si è
attardata nella tua bottega. Ha visto la culla e non ha smesso di
contemplarla per un istante. Poi si è curvata, ha steso il mantello
per terra e l’ha riempito di trucioli e di segatura, di ritagli e
di assicelle. Ogni sera, così, lei fa il carico per accendere il
forno e a te rimane il pavimento pulito e un pane di granturco per la
cena.
Ma, a proposito, ora che siamo rimasti
soli, vuoi spiegarmi, Giuseppe, come hai accolto il mistero di quella
culla? E perché mai tu, l’uomo dei sogni, torni ogni tanto verso
quel piccolo nido di legno, e trattieni il respiro, e tendi
l’orecchio illudendoti di ascoltare un vagito?
Oh, figlio della
casa di Davide, raffrena la tua impazienza: il bambino che sta per
nascere è sì un Dio gratuito, tanto gratuito che spunterà come
rugiada sul vello, ma tu devi attendere ancora, e anche la culla deve
attendere; anzi, non rimanerci male se ti dico che quel nido,
costruito da te con tanta tenerezza, resterà vuoto per sempre:
sarà troppo piccolo per tuo figlio, quando egli, dopo tanto
peregrinare, metterà piede finalmente nella tua casa. Da ben altro
legno del resto saranno cullate le membra del Dio fatto uomo! Ma
stavolta non spetta a te costruirlo!
Vedo che la notizia non ti turba
granché. Hai così tanto imparato dalla gratuità purissima di
Dio, da non provare il minimo sgomento al pensiero che la tua fatica
non sarà compensata neppure dalla soddisfazione di sentirti utile a
qualcosa.
Culla o greppia, non t’importa. Non pretendi neppure
contropartite affettive e continui ad attendere come dono, come
semplice dono, da nulla provocato, se non dalla sua stessa
liberalità, il tuo imprevedibile Dio: O cieli piovete dall’alto,
o nubi mandateci il Santo, o terra, apriti o terra e germina il
Salvatore.
Anche la tua vita si è fatta dono. Un dono così
grande, che in paragone quello filtrato dal seme corruttibile della
carne, sembra appena l’acconto di un avaro. Un dono così libero
che tutte le paternità messe insieme dai titolari della tua
genealogia, non pareggiano il tuo diritto di chiamarti padre di
Gesù.
Un dono così radicale che, pur custodendo la verginità di
Maria, ti fa una sola carne con lei infinitamente più di quanto non
siano tutt’uno due sposi nel momento supremo dell’amore.
Un dono
così gioioso, che la tua contabilità non è segnata sui registri
a partita doppia, contempla solo la voce in uscita. Tu non chiedi
nulla per te. Neppure da Dio! Ma non per orgoglio, per sovraccarico
d’amore, dai tutto senza calcolo, e non accantoni oggi frammenti
oscuri di tempo, allo scopo di ritirare domani interessi di gloria
per tutta l’eternità. Ssssttt....!!!
Silenzio Giuseppe, un carro
si è fermato alla tua porta. Entra un uomo, molto stanco, e poggia
sul bancone un piccolo otre di vino, e dice: “Ho attraversato tutta
la Giudea e la Samaria, e debbo raggiungere, prima che sia notte la
terra di Zabulon. Ti ho portato un po’ di vino, dalle vigne di
Engaddi, laggiù presso il Mar Morto. E’ di quello buono. Bevilo
Giuseppe, alla mia salute con la tua sposa. So che aspettate un
figlio”.
Beh, stasera il Signore vuole mostrarsi particolarmente
generoso anche con me, perché mi ha messo sotto gli occhi un altro
simbolo, quello della gratuità e della festa.
Dopo il pane della
fornaia, ecco il vino del carrettiere, il vino che rallegra il cuore
dell’uomo. Mah, vedo Giuseppe che ti accingi a chiudere, perché
hai preso un orciolo di terracotta e stai uscendo per riempirlo
d’acqua alla fonte vicina. Io allora approfitto della tua assenza
per leggere in negativo quel simbolo della letizia, appoggiato sul
bancone, e chiedermi se per caso questa mia irruzione di stasera
nella tua bottega di Nazaret, non sia stata un’evasione puramente
letteraria, in un mondo, che con quello in cui mi tocca vivere, non
ha nulla da spartire.
Ci vuole infatti un bel coraggio a dire che il
vino è segno di gratuità e di festa, quando per noi è divenuto
l’emblema drammatico dell’evasione e della fuga, che accomuna i
tossici agli alcolisti, gli ultras ai barboni! Ma perché mai il
vino si è pervertito in idolo fascinoso per chi getta le armi e
rinuncia ad un’esistenza troppo faticosa da vivere?
Il motivo c’è:
abbiamo smarrito l’ebbrezza della gratuità e c’è rimasta solo
l’ebbrezza dell’alcol! Sicché in un mondo
regolato dai
petroldollari, angosciato dai crolli di Wall Street, retto dalle
bilance dei pagamenti, che irta con la speculazione, che si infischia
dei debiti dei popoli in via di sviluppo, che si lascia sedurre dalla
massimizzazione del profitto, che monetizza persino il rischio delle
popolazioni, i cui terreni sono espropriati per farne basi militari,
che sfrutta i poveri col traffico delle armi, che è sordo alle
esigenze di un nuovo ordine economico internazionale.
In un mondo del
genere, come può esplodere la gioia?
Ci si lascia vivere! Si amoreggia con
il fatalismo! Ci si appiattisce in un’esistenza che scorre senza
più stupore, senza spessore, come le immagini sul video. E noi
compiamo le nostre scelte come se spingessimo i tasti di un
telecomando. Crediamo di scegliere e invece siamo scelti!
Si muore
per anemia cronica di gioia, si moltiplicano le feste, ma manca la
Festa!
E le letizie diventano sbornie! Gli incontri frastuoni e i
rapporti umani, orge da lupa mari!
Meno male Giuseppe che hai fatto
presto a tornare dalla fonte. Vedi in tua assenza sono stato colto da
un pauroso deficit di speranza e ho temuto addirittura di dover
uscire dalla tua bottega per la tangente del pessimismo!
Ma ora che
sei rientrato anche il vino di Engaddi, lassù sul bancone, torna a
rosseggia di letizia pasquale e risplende come simbolo della festa.
Bevilo con Maria alla salute del carrettiere che te l’ha regalato;
ma anche alla buona fortuna di tuo figlio che sta per nascere. Un
giorno egli farà scorrere il vino sulle mense dei poveri, e
sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato
eterno.
Anzi, se non ti dispiace, mettimene un poco, in quel boccale
di creta, me lo voglio portare come ricordo di quest’incontro, e
anche di quell’acqua che sgocciola ancora sul pavimento, dammene un
poco! Non è acqua inquinata quella! Le piogge acide, le discariche
industriali e gli additivi chimici l’hanno ancora preservata,
lasciandola come simbolo di purezza e di armonia ecologica.
Dammi
della tua acqua, la quale è molto utile, et humile, et pretiosa et
casta.
Ma dammela soprattutto perché, da quando tuo figlio la
userà per lavare i piedi ai suoi amici, in una sera di tradimenti,
del mese di Nisan, diverrà il simbolo di un servizio d’amore che
è la spiegazione segreta della condivisione, della gratuità e
della festa.
E visto che ci siamo, dammi anche di quel pane!
No, non
tutto! Spezzamelo Giuseppe! Condividilo con me! Un giorno anche tuo
figlio lo spezzerà prima di morire, e la speranza traboccherà
sulla terra.
L’acqua, il vino, il pane: la trilogia di un’esistenza
ridotta all’essenziale! Li porterò con me, nella bisaccia del
pellegrino. Mi serviranno tanto, sulla mia strada di viandante un po’
stanco. E serviranno tanto anche alla mia Chiesa, anzi quando mi
chiederà qualcosa, spero di non aver null’altro da darle che
questo: né denaro, né prestigio, né potere, ma solo acqua, vino
e pane!
Si è fatto tardi, Giuseppe.
Nella piazza non c’è più
nessuno. I grilli cantano sul cedro del tuo giardino.
Nelle case, le
famiglie recitano lo “Shemà Israel”. E tra poco Nazareth si
addormenterà sotto la luna. Di là, vicino al fuoco, la cena è
pronta. Cena di povera gente. L’acqua della fonte, il pane di
giornata, e il vino di Engaddi.
E poi c’è Maria che ti
aspetta.
Ti prego: quando entri da lei, sfiorala con un bacio. Falle
una carezza pure per me.
E dille che anch’io le voglio bene. Da
morire!
Buona notte, Giuseppe!
+ Don Tonino Bello (4 Marzo 1990)
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