Papa Francesco
"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco
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sabato 4 agosto 2018
Non sono bolle di sapone. Viaggio in Tanzania. 3 agosto 2018
Lasciamo definitivamente lo skyline di Dar, quel profilo in cielo descritto dai grattacieli che di anno in anno sono completati e ne sorgono di nuovi. La babele delle megalopoli sulla terra (e Dar è una di esse coi suoi quasi 6 milioni di persone) è nel loro essere omogenee tentando di raggiungere il cielo, e generando sempre più poveri, le centinaia di migliaia di persone che vanno ingrossando il suo ampio corpo disteso a terra. In ciò queste città si specchiano le une nelle altre.
Il traffico di auto furbette e dala dala strapieni, i cartelloni pubblicitari coi led ammosciati dalla luce del sole, i bajaji (ape car con tettuccio adibito a trasporto persone) che azzardano sorpassi quasi peggio delle moto, moscerini di fianco a ippopotami, e poi le persone: pronte, in cammino, alla lettura in attesa. Volti senza precedenti, che osservano e sono osservati, in abiti da lavoro, giacca e cravatta, magliette, tessuti colorati, divise scolastiche. Con un passo loro si distinguono i venditori di tutto ai semafori, regolati nei loro scatti dal verde e dal rosso semaforico, e i poveri, tragitti e andatura affatto uniche, intenti a guardare in un fosso cosa possa attrarli o ad attendere qualcuno che getti uno spicciolo.
Senza soluzione di continuità, le case si smarriscono ed iniziano a nascondersi dall'asfalto per non rischiare di dover soccombere a futuri ampliamenti. La vegetazione cambia man mano, le palme meno frequenti, una savana meno secca di quella del centro paese prende il loro posto. Siamo fuori, diretti a Morogoro.
Un tempo questa città era il centro nevralgico della ormai obsoleta produzione di Sisal, adesso punto di snodo viario e sede di parecchie scuole universitarie e di agraria, facilitate da un clima fresco e umido, assolato e all'ombra di massicci montuosi che accalappiano le nuvole randage perché lascino qualcosa alla terra.
Alloggiati al seminario del Precious Blood, un giovane e compito seminarista ci destina alle stanze e al pranzo. Ma ho fretta di raggiungere le suore Collegine, sono diversi anni che non mi fermo a Morogoro e voglio riprendere i contatti. Imbroccata la giusta via dopo qualche tentativo (Salehi il nostro autista è un tipo silenzioso, giovane, scaltro nelle soluzioni, sorridente quando le trova), troviamo Sr. Fulgenzia che fino a due anni fa ci accoglieva a Migoli.
Ci propone di fare due passi per sgranchirci un po. Alla fine passeremo due ore con le classi di settima della scuola primaria. Il gruppo desidera un contatto umano, dopo tre giorni che siamo in giro: essere catapultati in un ambiente tanto diverso, spinge a cercare nelle sue maglie quello spazio per accedere, entrare in contatto con le persone. Con gli adulti non è facile, con i bimbi e i ragazzi l'immersione è quasi immediata. Curiosità reciproca, sguardi di un gruppo di fronte all'altro, si parte con canti e gesti che diventano il linguaggio un po festoso e caciarone per iniziare il dialogo.
Alla sera verificheremo insieme queste prime giornate, e nascono anche i primi dubbi su questo nostro comportamento: siamo tipici occidentali? In fondo non è che mascheriamo col gioco la nostra diversità, illudendoci di entrare in questa cultura quasi a buon mercato, con incontri come questo che sono gratificanti per un verso, ma che ci lasciano immersi in una bolla? Stiamo vedendo come da fuori la vita della gente.
Più o meno questo il tenore di alcuni interventi. Nasce un piccolo dibattito positivo, come a rispondere a quel desiderio che riscontro negli studenti con me della necessità di dibattiti sinceri e onesti auspicata anche da papa Francesco.
Altri dunque sottolineano gli aspetti positivi: in fondo anche quei ragazzi volevano entrare in relazione con noi e quella è la strada più immediata, tra l'altro supportata dai professori presenti. È vero che abbiamo fotografato i momenti, ma siamo stati anche ripresi a nostra volta da un loro professore, che ci ha anche fatto vedere un video di una loro collaborazione con una TV locale. Finiremo in televisione anche noi?
Ci siamo scambiati i differenti punti di vista, io ho consigliato di lasciare passare ancora del tempo, di fare tesoro dell'insieme delle cose dette, e se poi qualche punto interrogativo ci resta, non cercare per forza una risposta. Le domande su ciò che è umano e le difficoltà di relazioni umane, sono utili al rientro perché diventeranno la cartina di tornasole per verificare se ci accorgiamo anche nella nostra città che esistono bolle che faticano a comunicare tra loro e che semplicemente si ignorano.
Una domanda è un'ottimo inizio nei percorsi che cercano di gettare qualche ponte comunicativo.
Stefano dice: "Forse stiamo iniziando ad abbassare le nostre difese!"
NB: dalla Laudato Si letta oggi insieme:
"I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com'è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi." (n.13)
Il Vangelo di oggi e il brano di Geremia ci aiutano a riflettere sulla profezia, come fiducia nella possibilità che eventi e persone possano realmente cambiare, e gli schemi in cui le infiliamo sono proprio il contrario della profezia.
d onde
Il traffico di auto furbette e dala dala strapieni, i cartelloni pubblicitari coi led ammosciati dalla luce del sole, i bajaji (ape car con tettuccio adibito a trasporto persone) che azzardano sorpassi quasi peggio delle moto, moscerini di fianco a ippopotami, e poi le persone: pronte, in cammino, alla lettura in attesa. Volti senza precedenti, che osservano e sono osservati, in abiti da lavoro, giacca e cravatta, magliette, tessuti colorati, divise scolastiche. Con un passo loro si distinguono i venditori di tutto ai semafori, regolati nei loro scatti dal verde e dal rosso semaforico, e i poveri, tragitti e andatura affatto uniche, intenti a guardare in un fosso cosa possa attrarli o ad attendere qualcuno che getti uno spicciolo.
Senza soluzione di continuità, le case si smarriscono ed iniziano a nascondersi dall'asfalto per non rischiare di dover soccombere a futuri ampliamenti. La vegetazione cambia man mano, le palme meno frequenti, una savana meno secca di quella del centro paese prende il loro posto. Siamo fuori, diretti a Morogoro.
Un tempo questa città era il centro nevralgico della ormai obsoleta produzione di Sisal, adesso punto di snodo viario e sede di parecchie scuole universitarie e di agraria, facilitate da un clima fresco e umido, assolato e all'ombra di massicci montuosi che accalappiano le nuvole randage perché lascino qualcosa alla terra.
Alloggiati al seminario del Precious Blood, un giovane e compito seminarista ci destina alle stanze e al pranzo. Ma ho fretta di raggiungere le suore Collegine, sono diversi anni che non mi fermo a Morogoro e voglio riprendere i contatti. Imbroccata la giusta via dopo qualche tentativo (Salehi il nostro autista è un tipo silenzioso, giovane, scaltro nelle soluzioni, sorridente quando le trova), troviamo Sr. Fulgenzia che fino a due anni fa ci accoglieva a Migoli.
Ci propone di fare due passi per sgranchirci un po. Alla fine passeremo due ore con le classi di settima della scuola primaria. Il gruppo desidera un contatto umano, dopo tre giorni che siamo in giro: essere catapultati in un ambiente tanto diverso, spinge a cercare nelle sue maglie quello spazio per accedere, entrare in contatto con le persone. Con gli adulti non è facile, con i bimbi e i ragazzi l'immersione è quasi immediata. Curiosità reciproca, sguardi di un gruppo di fronte all'altro, si parte con canti e gesti che diventano il linguaggio un po festoso e caciarone per iniziare il dialogo.
Alla sera verificheremo insieme queste prime giornate, e nascono anche i primi dubbi su questo nostro comportamento: siamo tipici occidentali? In fondo non è che mascheriamo col gioco la nostra diversità, illudendoci di entrare in questa cultura quasi a buon mercato, con incontri come questo che sono gratificanti per un verso, ma che ci lasciano immersi in una bolla? Stiamo vedendo come da fuori la vita della gente.
Più o meno questo il tenore di alcuni interventi. Nasce un piccolo dibattito positivo, come a rispondere a quel desiderio che riscontro negli studenti con me della necessità di dibattiti sinceri e onesti auspicata anche da papa Francesco.
Altri dunque sottolineano gli aspetti positivi: in fondo anche quei ragazzi volevano entrare in relazione con noi e quella è la strada più immediata, tra l'altro supportata dai professori presenti. È vero che abbiamo fotografato i momenti, ma siamo stati anche ripresi a nostra volta da un loro professore, che ci ha anche fatto vedere un video di una loro collaborazione con una TV locale. Finiremo in televisione anche noi?
Ci siamo scambiati i differenti punti di vista, io ho consigliato di lasciare passare ancora del tempo, di fare tesoro dell'insieme delle cose dette, e se poi qualche punto interrogativo ci resta, non cercare per forza una risposta. Le domande su ciò che è umano e le difficoltà di relazioni umane, sono utili al rientro perché diventeranno la cartina di tornasole per verificare se ci accorgiamo anche nella nostra città che esistono bolle che faticano a comunicare tra loro e che semplicemente si ignorano.
Una domanda è un'ottimo inizio nei percorsi che cercano di gettare qualche ponte comunicativo.
Stefano dice: "Forse stiamo iniziando ad abbassare le nostre difese!"
NB: dalla Laudato Si letta oggi insieme:
"I giovani esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com'è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi." (n.13)
Il Vangelo di oggi e il brano di Geremia ci aiutano a riflettere sulla profezia, come fiducia nella possibilità che eventi e persone possano realmente cambiare, e gli schemi in cui le infiliamo sono proprio il contrario della profezia.
d onde
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