Scandito lettera per lettera,
vedendo un bianco,
pronunciano e così mi salutano
i bambini che incrocio
scendendo da Tosa al fiume,
al ponte, alle case a destra e sinistra
(il cimitero solo a sinistra,
tranne alcune tombe
in una radura dopo il ponte).
Gli adulti schivano perlopiù
e le donne sorridono piegando il capo,
farsi timido della pioggia al suo esaurirsi.
Il piccolo Ruaha
scorre non veloce agli occhi,
si prende gioco di me, di noi,
al di sotto delle sue acque
torbide e terrose,
che solo gli eucalipti temono.
Eucalipti sopravvissuti
dove non competono
con le strade degli uomini.
Gli insetti sollevano al sole
la rigidità della notte
come se potesse sopravvivere
una candela accesa
invece di sciogliersi:
un'altra notte molti non vedranno.
Poi i passi sul ponte:
le assi di legno grigie come mummie
ricordano che un tempo
non c'erano piloni a sostenerlo
e bisognava scendere dal bus
per paura non reggesse
e camminarci dietro.
A volte perché un ponte
tra gli uomini resista
bisogna scendere dal carro
e passare uno alla volta.
Un piki piki in agguato
sta già lavorando
col suo trasporto umano e la musica,
un'aria melodica americana,
che si intrattiene nell'aria
e devi ascoltarla.
Perché c è la discesa,
lasciano spento il motore
e vanno in folle.
"G o o d m o r n i n g"
di nuovo altri bambini.
Fa meno freddo a due ore dall'alba
e oggi senza scuola già si gioca
a calcio o basket,
e al tamburo antico della storia loro,
si sostituisce un nuovo battito,
un pulsare che procede
insieme a tutte le novità quotidiane:
Tosa è cambiata,
Iringa procede
balzando di scoglio in scoglio.
Ora lo sento,
mentre raggiungo i ragazzi
all'orfanotrofio dove alloggiano.
Ora lo sento:
non è un tamburo,
magari suonato alla messa mattutina,
ma il tabellone essenziale
nel recente campetto sportivo
fuori mura delle suore.
"Habari asubuhi" dico io,
ma la mia voce è come
una foto curiosa da riportare a casa.
Insomma: Buongiorno!
d onde
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