Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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martedì 15 maggio 2018

Gli attentati visti con gli occhi di una madre. Valeria Collina: “Abbiamo a che fare con qualcosa di potente”

Il corpo dell’attentatore adagiato sull’asfalto con attorno ancora le teste di cuoio armate, le sirene delle ambulanze, le auto delle forze dell’ordine. Scene purtroppo a cui l’Europa si sta abituando. Ma per una madre dietro a quelle immagini riprese alla tv, c’è un figlio. 


Perso due volte: prima con la radicalizzazione che gli ha tolto l’anima e la mente, poi con la morte. Abbiamo chiesto a Valeria Collina di raccontarci questa storia. È la madre di Youssef Zaghba, il ragazzo morto sul London Bridge il 3 giugno 2017 dopo aver ucciso, insieme ad altri due attentatori, otto persone. Italiana convertita all’islam, Valeria ha scritto un libro “Nel nome di chi”. 

È passato un anno, ma il ricordo di quel giorno è limpido. “Erano giorni di digiuno e Ramadan”, racconta. “Avrei dovuto raggiungere mio figlio a Londra. Ci si sentiva sempre su WhatsApp. Spesso anche al telefono. E il giovedì prima dell’attentato, mi aveva chiamato, abbiamo fatto i soliti discorsi che si fanno tra una mamma e un figlio che vive lontano”. Ma era una telefonata di addio perché da quel momento, sia lei sia il padre che vive in Marocco, perdono completamente i contatti con Youssef. È a questo punto che irrompe la notizia dell’attentato al London Bridge. 

E comincia a crearsi un collegamento tra Youssef e le due persone che erano state fino a quel momento riconosciute. “Un amico ci dice che Youssef conosceva uno dei due attentatori. Proviamo a contattarlo ma non ci riusciamo e comincia a farsi strada l’idea che si era messo in fuga, sentendosi associato a questo atto, lui che aveva già tentato di partire per la Siria dall’Italia ed era per questo seguito dalla Digos. Lo pensavo allora in giro per l’Europa, mi chiedevo dove stesse andando, cosa mangiava, se aveva freddo, se era con qualcuno, se aveva paura… Due giorni di angoscia totale. Poi, mi telefona mia figlia e mi dice che stava arrivando con gli agenti della Digos. Pensavo che volessero prendere il mio telefonino, per vedere i miei contatti con lui. Li faccio entrare in casa. Parliamo di alcune cose. Estraggo il telefono, lo allungo sul tavolo. Ma l’agente mi dice: ‘Ci dispiace ma in questo momento il suo telefonino non ci serve, siamo venuti a dirle che suo figlio è morto’.

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