Al tavolo sotto il portico in pietra (volte a botte, volte a crociera, brezza ombreggiata piacevole, mosche in stand-by) nel pomeriggio inoltrato prendo posto vicino alla sedia occupata da una gattina incinta, invisibile se non per una zampa e la coda che ciondolano al seccume assolato del deserto.
Il Desert Fox Camp, tra queste deserte montagne rocciose sta nella valle ed è un appoggio per turisti come noi, ma non tutti qui per la salita al monte delle tavole, il monte di Mosè e del Signore di Abramo di Isacco di Giacobbe, il monte della nube di Dio, il monte del velo sul volto e del passaggio di Adonai, il monte delle parole di Dio e del silenzio idolatrico del popolo, il monte del bivio dell'alleanza e della vita, del tradimento e della morte, il monte sotto cui i monaci hanno stabilito dimora dicendo che tutto è avvenuto qui. E noi accogliamo la tradizione e muoveremo i nostri passi sulla montagna, nella notte fino all'alba. Diamo un nome alle cose, diamo un nome agli animali, diamo un nome agli esseri umani e le persone intorno a noi hanno il volto delle nostre parole: fratelli o nemici, inutili o amati, ignorati o fondamentali. E così diamo nome anche a questo monte che saliremo perché ancora si tramanda che è stata manifestazione divina qui a mettere piede su queste rocce. E perché questo nome possa dire bene anche dei nostri nomi. Immagino che come me anche gli altri porteranno su alla cima con sé nomi di persone da pronunciare al sorgere del sole, prima del proprio nome e dopo quello del Signore che ciascuno conosce.
Abbiamo incrociato una famiglia al nostro arrivo, numerosa, a pranzo, era poco dopo le 12. Qualcuno di loro conosceva l'arabo, ma parlavano forse in ebraico. Poco fa una giovane donna ci ha salutato in italiano, abbiamo sorriso e risposto chiedendo se era del nostro paese. "Egyptian. Isn't It the same?". Intorno a me, ora, della comunità che gestisce il posto alcuni sono seduti, a riposo. Uno lava l'auto. Il cuoco ci prepara la cena.
Noi ci siamo riposati un paio d'ore ma senza dormire con costanza. Poi abbiamo fatto una lunga passeggiata sperando di andare verso il monastero. Invece il negoziante che ci vende banane e manghi, al centro di quello che sembra diventare un nucleo medio cittadino (fervono costruzioni ovunque nella zona, abbiamo pagato un biglietto per entrare nell'area del PARCO DI SANTA CATERINA), ci dice che è esattamente dalla parte opposta. Perciò siamo rientrati ed ora redigo questa prima parte di diario.
Il caldo del deserto, il colore delle rocce che cambia secondo l'altezza del sole (ora sono rosse come il tramonto), un paesaggio meno ansioso del caldo della città con il suo anomalo umidume che insiste a chiedere un obolo al nostro fastidioso sudore. Qui si sta meglio, il secco ad alta temperatura inganna e chiede frequenti beveraggi, ma la sensazione generale non è di fastidio. Anzi, aggiunge valore al mondo del deserto dove ci troviamo.
Stamattina alzandomi alle 4 del mattino tutto era ancora caldo in camera, l'aria le lenzuola perfino i vestiti stesi sul letto. Il muezzin registrato non viene supportato da un sufficiente impianto di amplificazione e finisce per uscire un gracchiante canto tutt'altro che bello rispetto a dove la mosche ha soldi per stipendiare qualcuno che canti dal vivo la preghiera. Dalla strada rumori di clacson e il solito abbaio latrato dei cani.
Le suore hanno preparato per noi un mucchio di pasto per dopo. Celebriamo la messa di san Giacomo prima di partire. Sul servire e sul potere. Dipende sempre da quale dei due verbi metti per primo ingannandolo. Ci viene a prendere con l'auto il nostro autista Andrea. Fuori i tre grandi pali con i ripetitori, svettano sul Mokattam e ci attendono come guardiani fedeli, alla partenza, al ritorno. Davanti a noi un'auto perde il controllo e invece di prendere la curva va dritta contro il basso muretto di una aiuola centrale, la sfonda e si blocca, scende dall'auto il guidatore, prende il telefono e chiama e si mette in attesa. E noi ci avviamo. Costeggiamo la città dei morti e prendiamo la strada verso il mar Rosso.
Sulla strada i controlli sono aumentati e non solo a Suez. Spesso passiamo dei check-in con blindati e mitragliatrici in vetta. Controllano i passaporti. Il presidente attuale è riuscito a riprendere il controllo della penisola dagli ultimi strascichi di bande con qualche colore politico che tenendo destabilizzata la zona potevano commerciare in armi e altro. Ora è finita. Sembra.
E tutto si è trasformato. Sono trascorsi 13 anni dall'ultima volta che sono venuto qui. Non mi aspettavo questa trasformazione.
Innanzitutto le strade: giganti come le rocce di queste montagne, stanno diventando tutte di una misura corrispondente a circa sei corsie, mangiandosi diversi posti che prima occupavano i bordi dei tracciati asfaltati che portavano al monastero di Santa Caterina. Lungo la strada, prima di deviare verso l'interno, vediamo appezzamenti ben curati di manghi. Dove c'è acqua anche il deserto può fiorire.
E via via che ci avviciniamo al monastero, aumentano le costruzioni. Sembra soprattutto di edifici che possano ospitare turisti, oppure case a schiera per portare qui nuclei di lavoratori che formino e alimentino una sorta di vita cittadina. Penso a quando venivamo qui a dormire nelle case dei beduini! Ora ci affittano stanze personali e bagni dedicati.
Così oggi, durante il viaggio, pensavamo a cosa avesse potuto significare per il popolo di Israele restare quarant'anni in questo deserto. Tutti gli episodi che ci ricordiamo acquistano una dimensione reale: cos'era raccogliere come umore mattutino la manna in questo deserto roccioso? Cosa significava trovare una sorgente di acqua bevibile? E i ripari dal sole dal caldo dalla luna dal freddo: come non desiderare di tornare nelle case in Egitto attorno al fuoco mentre nelle pentole bollono le cipolle e le carni? Cosa è liberare il cuore dalla schiavitù? Un detto ebraico sottolinea che è più facile liberare Israele dalla schiavitù del faraone, che liberare il cuore di Israele dalla schiavitù in Egitto. Uscire dalla propria terra, dalle proprie schiavitù è il primo passo. Poi devono uscirci dal cuore. Altrimenti saremo sempre alla ricerca di un luogo di pace, quando la guerra ce la portiamo nel cuore. La generazione del popolo che entra nella terra promessa non è quella che è uscita dalla terra d'Egitto. E Mosè con il suo popolo. Solo Giosuè capace di entrare nella nuova terra. Stessa radice del nome di Gesù. E noi in auto percorriamo tutto in un giorno o due! Siamo davvero frettolosi dignitari di questa salita sul monte!
Nel viaggio incrociamo alberi e persone al lavoro. Ci sono muri costruiti a perimetrare cose che devono ancora essere costruite. Un copertone nero e bianco è stato posto su una roccia in alto sul costone all'ingresso di una delle tante valli che attraversiamo. Una capra e un dromedario condividono alle 11.24 l'ombra di un'acacia, perché l'ombra non ha un prezzo, è di tutti.
Arrivati alla rotonda dove si paga la tassa di ingresso al parco che è stato istituito per questa zona del Sinai, acquistiamo i nostri biglietti per 5 dollari a testa. Ci abbiamo impiegato poco più di sei ore ad arrivare e sono le 12.30. Al centro della rotonda una teiera gigante stile Disneyland anni sessanta sembra posta li da uno svogliato designer di paesaggi. Quello che merita di più è questo deserto che ci stupisce ad ogni minuto. Perché è polvere, perché è vivo.
Vicino al nostro Camp tra i nuovi edifici, anche un ospedale tutt'altro che piccolo.
Qualche minuto fa, nella passeggiata sperduta ci siamo trovati sul lato opposto della valle rispetto al nostro alloggio. Non si vedevano i tre giovani dromedari che osservavamo dal piccolo portico davanti le nostre camere.
Ma una piccola epifania mi fa sperare per la nostra ascesa notturna. Il vento soffia in queste valli e c'è tanta spazzatura in giro. Beninteso non cumuli di spazzatura ma frammenti strappati da probabili discariche del paesotto o cose gettate dalle auto di passaggio, involucri di carta e di plastica. Davanti a noi una bustina di plastica viene sollevata dal vento ed in pochi secondi viene sollevata in verticale. Pochi secondi ancora e sale lungo il crinale del monte di fronte. Lo supera e per un po' rimane un punto bianco prima di sparire oltre. "Pensa se tutte le cose potessero prendere il volo?" Dice Matteo. Io dentro di me dico: "Pensa se stanotte potessi volare così alto così rapido e leggero, fino alla cima del monte, come quella busta?".
Tra poco ceniamo, riposiamo, poi a
ll'una si prenderà il cammino.
Nessun commento:
Posta un commento