Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

Translate

venerdì 2 marzo 2018

La storia non si cancella: intervista a padre Fabrizio Valletti

Il gesuita Fabrizio Valletti, quasi ottantenne, oggi fa base a Scampia, Napoli, dove da anni anima le attività per restituire dignità alle persone del quartiere divenuto nel frattempo famoso per Gomorra. Nel ’68 era un giovane gesuita, non ancora ordinato, e fu fermato dai gendarmi vaticani mentre volantinava dentro la basilica di San Pietro per protestare contro l’arrivo a Roma di Richard Nixon. Qualche anno prima aveva preso parte alle proteste a Valle Giulia, la facoltà di Architettura di Roma, poi fu tra i promotori dell’occupazione dell’Università di Pisa. E nel frattempo si trovò in mezzo ad un episodio a dir poco insolito, il sit-in dei seminaristi e giovani preti (soprattutto latino-americani) che studiavano nella austera Pontificia Università Gregoriana. Un sessantottino a tutto tondo, insomma, che non veniva da una famiglia qualunque (il padre, medico chirurgo, operò Paolo VI), e proprio da Papa Montini, a dimostrazione della sua obbedienza al Pontefice, fu ordinato.


Nel Sessantotto «condividevo il fermento di tutta un’area cattolica a Roma», racconta padre Valletti in questa intervista con Vatican Insider. «Su molti temi, come il catechismo, l’insegnamento della religione a scuola, i problemi legati al Concordato, c’era convergenza con le comunità di base e con i Valdesi. Quando Richard Nixon venne a Roma per incontrare il Papa, si chiedeva a Paolo VI di non accoglierlo come presidente ma come penitente, perché in quegli anni gli Stati Uniti erano impegnati nella guerra in Vietnam. Ci pareva che potesse essere un momento di pacificazione. E così durante un’assemblea ecclesiale romana si decise di andare a San Pietro e pregare sulla tomba di San Pietro. Facemmo volantinaggio in basilica per suggerire proprio questo: denunciare che Nixon rappresentava una potenza che bombardava il Vietnam e chiedere che fosse ricevuto non come Capo di Stato ma come penitente che il Papa poteva convincere a portare pace. Paolo VI era molto sensibile al tema della pace, il Concilio era finito da poco e nella base cattolica c’era un sentimento molto forte di adesione all’ideale della pace. Il rettore della basilica ci vietò di fare volantinaggio…. e dato che io, che non ero ancora sacerdote ma ero già entrato in Compagnia di Gesù, ero l’unico chierico, fui preso dai gendarmi e portato via, mentre tutti gli altri amici, saremo stati un centinaio di persone, si misero per terra. Si avvicinarono in tanti che in quel momento stavano visitando la basilica. La cosa finì sui giornali… ho ancora le copie di Paese sera, a quell’epoca giornale della cronaca romana, con la foto di quella scena!».

Per lei come andò a finire?
«Dato che la Gendarmeria era occupata nei preparativi per accogliere Nixon, non avevano tempo per me e così fui portato dalla Polizia di Stato italiana... Fu un episodio interessante. Io ero studente e i miei superiori erano un po’ preoccupati, temevano che io non fossi obbediente al Papa».
Non era vero?
«Niente affatto, io professavo piena obbedienza al Papa. Le cose andarono bene. Nel 1970 fui ordinato personalmente da Paolo VI. Fu il primo episodio del genere: il Papa volle fare, insieme al suo Vicario, l’ordinazione di 80 chierici di tutto il mondo che studiavamo a Roma. I miei superiori pensarono che il modo migliore per mostrare che amavo il Papa fosse che venissi ordinato dal Papa. Tra l’altro in quel periodo mio padre, che era medico e faceva servizio di chirurgia in Vaticano, aveva operato Paolo VI…».

Non era la prima volta che prendeva parte a simili iniziative?
«Prima di entrare in Compagnia di Gesù mi ero iscritto alla facoltà di Architettura a Roma, a Valle Giulia. Lì, anni prima della famosa rivolta del 1° marzo 1968, nel 1957-’58 facemmo un’occupazione per contestare la politica della Immobiliare e dei palazzinari romani. In quell’epoca dominava la politica di una destra cattolica che era poco sensibile alla scelta di civiltà di fermare l’urbanizzazione selvaggia. Proprio in quegli anni, peraltro, l’abate di San Paolo, dom Giovanni Franzoni, pubblicò “La terra è di Dio”, una lettera pastorale il cui significato è che, appunto, la terra è di Dio non dei palazzinari, uno scritto che gli provocò una censura molto forte. Studenti di diverse sensibilità politiche, ci coordinammo con una iniziativa che superava queste diversità. Fu un’esperienza molto singolare, molto significativa, che anticipò in un certo senso i tempi del centrosinistra. Più tardi lasciai architettura. Entrai nella Compagnia di Gesù a cavallo tra il 1958 e il 1959. Studiai filosofia alla Gregoriana, poi andai a Pisa a studiare lettere. Anche in quel caso facemmo un’occupazione della Sapienza di Pisa. Io ero studente già gesuita, ma non prete, e feci un po’ da mediatore tra cattolici e comunisti. Più tardi tornai a Roma per prendere la licenza in Teologia».
Sempre alla Pontificia Università Gregoriana. Dove ancora oggi si racconta che lei fece parte di un sit-in di protesta molto sessantottino…
«Era il 1971. Il padre Josef Fuchs, che insegnava teologia morale e fece parte della commissione teologica che il Papa Paolo VI consultò prima di scrivere la Humanae vitae, favoriva all’interno della Gregoriana la possibilità che gli studenti potessero avere parola e espressione. Fui eletto rappresentante. Incominciavamo, con i rappresentanti dei collegi pontifici, a fare incontri per incoraggiare i nostri professori ad attuare quello che il Concilio aveva proposto, l’apertura pastorale tenendo conto delle culture diverse dei giovani che venivano a studiare a Roma. L’occasione più eclatante fu un’assemblea nel 1971 durante la quale gli studenti, e in particolare i seminaristi e i giovani preti dell’America latina, contestavano alcune proposte che venivano fatte da Pontificia Università Gregoriana, questioni più pratiche come l’aumento delle tasse universitarie, oppure la difficoltà che questi studenti provavano nel coniugare la proposta teologica teorica della Gregoriana con le realtà che emergevano in America latina, anche sulla scia della teologia della liberazione. Ci fu dunque l’assemblea e questi studenti decisero di fare un sit-in nel porticato interno che fa da ingresso all’università. Fu un’occasione abbastanza singolare. Era pieno di seminaristi e giovani preti seduti per terra. L’episodio mise in crisi il rettore di allora, era insolito che in una pontificia università potesse esserci una protesta che aveva un po’ il sapore del ‘68 laico. Ci fu un po’ di preoccupazione per l’eco della vicenda, che finì sui giornali… Io fui preso un po’ di mira da alcuni professori, ma i miei superiori mi difesero, perché non avevo deciso io il sit-in, ero il rappresentante degli studenti e dovetti constatare che c’era questa volontà, non la avallai né avevo l’autorità per negarla».

Che tempi erano per un giovane sacerdote?
«La Chiesa era in grande fermento. Dopo gli anni Settanta nacque il movimento dei “Cristiani per il socialismo”, il “Movimento 7 novembre”, io fui mandato a lavorare a Firenze, sulla scia di Ernesto Balducci, mi trovai a fare esperienze molto belle con la comunità dell’Isolotto di don Mazzi, che purtroppo fu censurato dal cardinale Florit che non era d’accordo con questo fermento che la Chiesa di base fiorentina esprimeva. Ad ogni modo, fu una bella stagione».
A Firenze c’era stato don Lorenzo Milani...
«La presenza di don Milani si sentiva, si sentiva soprattutto il suo catechismo. Don Milani disegnava e scriveva con i bambini. Le esperienze pastorali, la lettera alla professoressa, la sua esperienza a Barbiana, e poi il suo catechismo a Calenzano sono cose che si sono sviluppate e sono rimaste ancora oggi e ancora incidono, non solo in ambiente laico, dove don Milani è molto citato, ma anche nella Chiesa fiorentina. Ha segnato un momento di rinnovamento non indifferente. E io ho cercato di vivere una catechesi molto ispirata al suo metodo, che metteva al centro più il Vangelo del catechismo».
(Padre Valletti si ferma e raccoglie le idee) «Sono piccoli episodi che il tempo magari cancella, ma non cancella quei rivoli carsici che tornano fuori: il desiderio della base di esprimersi, il desiderio del popolo cristiano di avere voce, tutte realtà che dopo il Concilio hanno avuto bisogno di molti anni per affermarsi, ma oggi forse siamo nella fase più bella della Chiesa, molti possono parlare, possono esprimersi, la Chiesa sinodale sta vivendo un momento proficuo».

Grazie a Papa Francesco?
«Grazie alla maturità di molti vescovi, di molte Chiese locali che stanno dando al laicato la giusta responsabilità e consapevolezza».

Che bilancio fa lei del Sessantotto? Per alcuni, fu una promessa tradita.
«Credo che il Sessantotto, prima di essere un momento politico, è stato un momento culturale, perché l’allargamento della conoscenza, il modo di leggere la realtà, il modo di affrontare il mondo dei poveri, il contrasto alle spinte autoritarie sono tutti fattori che hanno significato un progresso culturale prima ancora che politico. Poi, certo, qualcuno protesta, perché non c’è stata una spinta rivoluzionaria o perché è stato un periodo di anarchia. Ma a leggere in modo storicamente intelligente quel frangente io penso che si debba riconoscere che ha rappresentato una svolta, una svolta di significato anti-autoritario e anti-celebrativo, che, nel mondo operario o nel mondo della scuola, ha dato voce al popolo, agli ultimi, a chi non aveva mai avuto modo di esprimersi e soprattutto di decidere. Io non posso che dire che è stato un periodo importante. Purtroppo come tutti i movimenti innovativi provocano una reazione, quello del Sessantotto ha provocato una reazione molto forte, penso al ’77, all’omicidio Moro… gli episodi di reazione ci sono stati, ma il movimento dello spirito non si può fermare. E certamente come tutte le situazioni conflittuali, possono portare sofferenza, ma al tempo steso possono significare progresso e sviluppo. Ogni conflitto è frutto di movimento, o di reazione o di crescita. Secondo me il Sessantotto ha sollevato la coscienza di molte persone e le ha rese capaci di pensare e assumere la propria responsabilità. Ci si è accorti che l’ignoranza non premia: la necessità della scuola, dell’istruzione, del pensiero, della comunicazione sono tutte conquiste di cultura e di civiltà, e questo anche se provoca sofferenza e reazione significa però crescita. Non credo, però, che il passato sia migliore del presente, piuttosto sono interessato a vedere cosa del presente è positivo e possa svilupparsi nel futuro. I segnali ci sono».

Una personalità che ha conosciuto il Sessantotto dal di dentro come Goffredo Fofi ammira quei cattolici che, in diverse forme, sono state a suo parere il prodotto migliore dell'epoca: «Credo – ha avuto a scrivere – che il meglio è venuto da certe minoranze cattoliche, che hanno preso molto dal ’68, ma che ne hanno tradotte le istanze nelle pratiche di organizzazione e difesa di chi vive ai margini»...

«Il movimento delle comunità di base è stato ed è tuttora interessante, oggi non sono più fenomeni eccezionali. Ho avuto la fortuna di girare l’Italia in questi anni e posso dire che, nel silenzio e nella riservatezza, ci sono molti gruppi, parrocchie, movimenti, giovani di grande valore. La macchina della Chiesa è molto lenta, ma ci sono esperienze molto significative che riflettono la storia di quegli anni, una maggiore consapevolezza, una vita sacramentale meno celebrativa e più rispondente alla comunità, una lettura attenta della parola di Dio. Bisogna avere la pazienza di cercare i germogli migliori».


Padre Valletti nel corso della sua vita ha fatto attività pastorale oltre che a Firenze anche a Follonica e Bologna, dove ha fondato il Centro Poggeschi, ha insegnato lettere nella scuola pubblica, si è occupato di educazione degli adulti, ha fatto assistenza in carcere e molto altro. Continua a girare per l’Italia ma fa base a Scampia. Dal settembre del 2001 anima il “Progetto Scampia” e ha dato vita al “Centro Hurtado” che unisce un’associazione di volontariato, un ente di formazione ed una cooperativa sociale per aiutare i giovani della parte più problematica di Napoli a crearsi un futuro. Scrive sulla rivista Presbyteri della Congregazione di Gesù Sacerdote (padri Venturini) ed ha da poco dato alle stampe il libro “Un gesuita a Scampia” (Edb).  

tratta da vaticaninsider

Nessun commento:

Posta un commento