Viaggio in Tanzania 2023 – 3° puntata
Venerdì 18 agosto
Archiviati gli aerei, oggi siamo in macchina: dalle 5 alle 21. Soste solo per il diesel, per il pranzo, per le code in strada e per gli acquisti ad Iringa.
Più o meno sono 110 Km da Dar a Chalinze, un gruppo di case spalmate lungo la strada che ha acquistato importanza perché è il primo vero crocevia serio uscendo dalla metropoli di Dar. Altri 85 Km e sfioriamo Morogoro passando per la rotonda. Qui il senso di marcia è sulla sinistra per cui, in senso orario, la prima uscita è verso il centro di Morogoro, la seconda porta ad Iringa, la terza verso la capitale Dodoma. Per arrivare ad Iringa occorrono altri 300 km, compresa la grande salita che porta agli altipiani sui quali è situata. Apparentemente la città sembra costruita su di una erta collina mentre la sua altitudine è di oltre 1500 metri. Da Iringa poi dobbiamo percorrere un ulteriore tratto di strada asfaltata fino ad un bivio, dopo il quale la via diventa ben presto sterrata. Fino ad Usokami sono 65 Km, e altri 30 per arrivare a Mapanda, nostra meta, circa 1700 metri di altitudine, mi pare. Fatti i calcoli sono circa 600 Km di cui una settantina o più di strada non buona, che conosce i periodi peggiori nella stagione delle piogge, e quelli migliori nella stagione delle elezioni. Capisco che questa mappatura solitamente la lasciamo fare da Google, ma poi è difficile permettere agli altri di capire che per arrivare nei posti lontani lontani i viaggi costano fatica, e se stare seduto nella stessa posizione per ore può essere scomodo o difficoltoso, pensate a quanti qui si spostano a piedi, o per certi tratti con i dala dala o i piki piki. Andare a scuola, andare al campo, andare a trovare qualcuno, andare a cercare qualcosa che ti è necessario, una medicina o un pezzo di ricambio: i passi sono ancora le tracce più visibili e conoscono sentieri più numerosi delle strade segnate. Solo nelle galassie lontane lontane esistono i viaggi nell’iperspazio!Ed ora torniamo alle nostre 5 del mattino: suona la sveglia, quindi mi alzo. Non so a che ora si sia svegliato don Marco, ma siamo perfettamente coordinati e ci troviamo insieme nello stretto corridoio, con le mie valigie da portare di sotto. Usciamo in silenzio nel solitario buio del TEC. Comunque anche di giorno le persone le incontri solo all’ingresso o alla mensa negli orari dei pasti, ed in entrambi i posti c’è sempre un televisore acceso che ammazza la timidezza e tiene vivi i suoni per gli ospiti transeunti. Le guardie all’ingresso – in Tanzania è abbastanza comune avere un servizio di guardiani notturno – aprono il cancello, salutano don Marco, tornano nell’ombra delle sedute sui lati della strada, sotto una semplice copertura. Uno rimane in piedi e torna a chiudere il cancello dietro di noi, sento il rumore. Infatti tengo abbassato il finestrino per evitare l’appannamento dei vetri.
L'alba incipiente e umida di Dar è palpabile e sulla pelle sembra sfiorarti una medusa, trascorriamo così un chilometro o più vicino ad un deposito di container, dove lungo tutto il terreno che lo separa dalla strada asfaltata, i camion dormono, mansueti bestioni. La scommessa è uscire quando Dar è ancora in fase di sveglia. Tra un'ora le persone con il sole inizieranno ad aumentare e a girare per raggiungere i luoghi dove vivere durante il cammino del sole. Anche ora, attraversando la parte limitrofa al centro, una pioggerella debole ma insistente di esseri umani inizia a gonfiare poco a poco le zone pedonali che costeggiano le vie, minimo argine alle ondate di umanità che si sposteranno di continuo con un diluvio di folla in marcia. Come dicevo ieri: people have the power!
“L'importante è arrivare al Mikumi!” dice don Marco. Vero! Ma non c’è solo il traffico, ci sono anche i semafori finche siamo in città. Il rosso per esempio è di tre tipi: ci fermiamo tutti; noi ci fermiamo ma qualcuno tira dritto con scarso rallentamento di prudenza; tutti tirano dritto e non è possibile fermarsi. Mentre siamo fermi i venditori ci raggiungono anche nel buio. Vendono blocchi di quelle che mi sembrano stoffe. Hanno anche arachidi o cibi da consumare in modi non impegnativi per la guida, bevande in bottiglie di plastica e altri oggetti di cui non comprendo l’utilità. Respirano smog tutto il giorno in questa arte dei mestieri di strada che corrisponde al business di una bella fetta di popolazione della città.
Non molto dopo dalla nostra partenza ci fermiamo per il pieno. I carburanti sono tutti aumentati, il diesel costa qui 2935 scellini, circa un euro e una decina di centesimi. Non ha senso paragonarne la spesa al nostro, che tra provenienza, trasporto e tasse varie rincara quasi il doppio. Tutto è proporzionato con la vita locale: lo stipendio medio in Tanzania è stimato in 154 dollari circa, ma in città questa cifra sale e per essere sufficiente dovrebbe raggiungere una quota compresa tra 450 e 500 dollari. Questo vale per chi ha un lavoro con contratto! Gli altri, specie nelle zone rurali, vivono di economia di sussistenza, con entrate occasionali di lavoro manuale per terzi oppure nella vendita di beni prodotti.
Anche qui in Tanzania, il post-covid più che la guerra in Ucraina, ha portato all’aumento dei prezzi, del costo della vita, e dell’ospite fisso: la precarietà. Un esercito di precarietà. Da notare che i dati del covid in Tanzania si fermano a maggio 2020, data dopo la quale il virus è scomparso d’ufficio. Ma tutto è connesso, e la vita è aumentata esponenzialmente anche qua, per cui in città, anche con lo stipendio, rischi di non campare!
Come al tramonto, l’alba è decisamente rapida e questo mi permette di osservare tra i flussi di persone a piedi, gruppi di studenti, anche giovanissimi, che si dirigono a scuola. È rasserenante vederli inventare giochi e dialoghi tra loro, mentre sono in cammino. Sembrano assenti su di loro nuvole di ogni sorta: i cirri di tempesta o i cumuli di un futuro latitante ovvero di qualche già pesante storia personale. Non parlerei di speranza, perché quella è condivisa da chiunque si sia messo in strada. Se vuoi ricevere in dono la speranza, viaggiare camminando tra la gente è un buon aiuto.
Usciamo da Dar in piena luce, fieri di avere schivato un po’ di traffico. I paesaggi sono lenti, le case non hanno soluzione di continuità da quando abbiamo lasciato il centro, la differenza sta nel verde che si rende più visibile ai lati e oltre le case, e si sedimenta all’orizzonte, come il fondo del tea lasciato a riposare perché diventi tiepido al palato. Un corvo sembra un frutto malriuscito in cima ad un albero. I muri delle case, via via meno intonacate e tinteggiate, scoprono il loro cuore fatto di mattoni artigianali e resistenti. Le onduline di metallo, economiche, coprono come un berretto arrugginito le poche stanze delle piccole costruzioni abitative. Infine la strada diventa un mare ondoso, con ampie zone semi disabitate e increspature significative di conglomerati di edifici abitati. Più vai al largo dalle città e maggiore il mare sembrerà calmo, senza onde.
Nel frattempo parlo con Marco e ad una coda sulla strada – i camion rallentano per una pesa, sembra – acquisto due sacchetti di anacardi dal finestrino aperto. Uno lo mangiamo subito, l’altro mi servirà come lasciapassare tutte le volte che, rimanendo bloccati su strada per il traffico, qualcuno si avvicina per venderci qualcosa. Io semplicemente gli mostro il sacchetto attraverso il vetro. Piccola nota sul traffico in strada: dal 2019 mi sembrano considerevolmente aumentati i grandi mezzi di trasporto, i Tir, gli autoarticolati, che come macigni si incolonnano per le strade ancora a due corsie e di fatto intasano il traffico. Le auto hanno difficoltà a superare, gli autobus delle compagnie private lo fanno senza vergogna. Qua e là, carcasse incidentate pendono fuori dai cigli delle strade. Sembrano camion, spesso usciti di strada e bloccati e abbandonati e infine saccheggiati per recuperarne il meglio degli avanzi. Qualche mezzo ha subito la combustione e a volte le cabine hanno le lamiere contorte ed i vetri infranti. Degli autisti, uno prova a pensare che se la siano cavata!
Arriviamo a Chalinze verso le 8,30. Qui la coda dei camion costringe a rallentare, mentre l’uno o l’altro cerca di trovare un posto dove sostare. Don Marco mi farà notare che diversi hanno la targa dello Zambia e quindi stanno viaggiando per tornare, dopo avere fatto carico a Dar. Un negozio, con le casse acustiche fuori della porta, sta sparando un jingle orecchiabile che l’alto volume però mi rende un poco ostile. Chitarrine che si ripetono come uno scioglilingua, un canto di voci belle in swahili, un ritmo dove le percussioni sono più discrete di quanto si pensi.
A questo punto del viaggio è ormai evidente la pratica di superare -anche sulla stretta strada di montagna- che seguono gli autisti di tutte le compagnie. Al momento vediamo anche i pulmini più piccoli procedere cercando di superare gli altri alle varie fermate per poter caricare per primi le persone in attesa. Questi dala dala non hanno limiti di capienza definiti precisamente, per cui sta tutto alla discrezione dell’addetto a raccogliere i soldi e a far salire i clienti viaggiatori. Chioschi e saloon per capelli sono le attività commerciali più frequenti. Si distinguono dalle case perché hanno delle insegne molto curate che il contorno risalta come un trucco agli occhi su un viso appena lavato.
Mi addormento per una buona mezzora e quando mi risveglio, inizio a parlare con Marco, che lascia più a me invadere il rumore dell’auto che procede. Don Marco è prudente con la velocità, anche per non incappare nei frequenti controlli su strada della polizia. Ad uno dei primi, incrocio lo sguardo con una poliziotta e col suo cappello sproporzionato. Assomiglia ad un borsalino, con la tesa più piccola e risollevata sui lati. Di colore blu. La divisa invece è bianca e fa assomigliare i tutori delle strade a degli infermieri di corsie di ospedale.
Fuori dalla zona delle case, qualcuno taglia l’erba, oppure sceglie il metodo sbrigativo del fuoco, provocando un incendio tenuto controllato, o sperando di riuscirci sempre!
Morogoro si avvicina quando iniziamo ad attraversare le piantagioni di Sisal, di cui questo paese è stato uno dei massimi produttori fino all’avvento delle fibre sintetiche.
Morogoro, ore 10.30, alla rotonda immediatamente dopo la stazione delle corriere, si incontrano animali del parco: sono statue che riempiono l’aiuola centrale, probabilmente fatte in cemento, dipinte di colori netti e divisivi.
Tra i nuovi hotels in uscita dallo svincolo, un punto di raccolta della plastica: in cambio di un contributo, c’è chi si accolla una busta formato balena, nella quale stipare plastica, soprattutto bottigliette, abbandonate in giro.
Il punto di raccolta delle plastiche!
A mezzogiorno attraversiamo il parco del Mikumi e vediamo qualche erbivoro sgambare lungo i bordi, anche appena ad una decina di metri. Un gruppo di gazzelle perferisce attraversare la strada proprio davanti a noi e ci fermiamo (all’ingresso un cartello minacciava le sanzioni per eventuali animali uccisi durante il passaggio nel parco). Qualcuna resiste, ma vedendo le altre procedere, non so cosa ha inghiottito, forse il suo istinto di sopravvivenza, e ha saltato velocissima dall’altra parte e si è unita al gregge selvatico.
Pranzo alle tredici al Veta, fuori dal parco. Un gatto gentilmente ci insegue dal buffet del ristorante al tavolo dove siamo seduti, uno dei piccoli bungalow costruiti intorno alla struttura centrale. È una femmina un poco malridotta, ha una visibile cicatrice sotto il petto e si mangia ossi e resti del nostro pollo, sgranocchiandoli con una rapidità che vince quella del nostro pranzo. Ci godiamo il momento perché da adesso fino alle 17 dovremo fare una tirata unica per arrivare a Iringa e trovare i negozi ancora aperti. I bambini che andavano a scuola, ora sono in strada in fuga e folleggiano verso casa. Alcuni si attardano alle altalene dietro il nostro ristorante. Di nuovo stanco e mi appisolo. Mezzorette che diventano sempre più frequenti almeno fino ad Iringa.
Ripresa la veglia mi metto ad ascoltare qualcosa che ho nella memoria del telefono, canzoni che non so bene come siano rimaste lì, che spaziano da quell per bambini anni settanta, a pezzi più recenti. Il povero don Marco deve sopportare e lo fa con pazienza. Mi racconta, e così tira il fiato dalla mia musica, di come i vescovi abbiano preso posizione decisamente contraria alla scelta della presidente Samia di svendere i porti della costa agli emirati arabi. Sembra che il precedente presidente Kikwete abbia un certo peso nelle decisioni del capo dello stato, e in parlamento la discussione è stata evitata, rimuovendola dagli ordini del giorno, e magari arrestando qualcuno eccessivamente critico in pubblico contro la presidente.
Primi altipiani, una distesa di baobab segna il cambio dell’ecosistema, siamo entrati nella regione di Iringa, e sul ponte abbiamo incrociato un vecchio minuto, piccolo, magro, con un berretto coloratissimo, fresco, pieno di vitalità. Sono le 15 e le nuvole dipingono ombre sui monti che vogliamo sfidare.
Sulla strada che inizia a salire e diventare ripida, i camion rallentano infinitamente le auto. I pullman sono indifferenti alla cosa come di sabato un consumatore ai poveri in via indipendenza, e sorpassano con disinvoltura anche 4 pachidermi alla volta. Si vede che la lentezza incentiva gli autisti a gettare cose dai finestrini. Così i bordi delle strade sono pieni di spazzatura, che per i corvi ed i babbuini è una manna! Siamo osservati dagli animali, in attesa di capire se gli umani vogliano o meno svolgere il servizio che gli compete e contribuire al loro mantenimento. Siamo animali che fanno transumanza e lasciano cadere briciole dai loro carichi. Scimmie e volatili sono intelligentemente opportunisti e abituati al perenne traffico diurno.
Siamo arrivati ad Ilula, mezzoretta da Iringa. Una carcassa di camion giace a brandelli nel fosso sotto la strada circa a metà del paesino. Finalmente un campetto da calcio con due squadrette che giocano! Ancora un poco e si raggiunge il nuovo parcheggio delle corriere, Igumbilo. Sotto Iringa una pianta di Jacaranda ha già fiorito, segno del freddo che sta passando ed è in arrivo la stagione delle piogge e del caldo. Ha i fiori di viola acceso, che invadono i rami spogli del fogliame. Sento nella mente non il ricordo ma la voce stessa di padre Giorda che mi accompagna ad Iringa nel 2015 e cerca di spiegarmi le cose che vediamo per strada. Le giacarande erano tutte fiorite, si era in settembre ormai. Stava già male e nell’autunno sarebbe rientrato a Torino per una operazione che gli ha dato un grave handicap, ma non gli ha impedito di rientrare a Tosa, nella parrocchia all’epoca ancora seguita dai padri della Consolata. L’ultima volta l’ho incrociato nel 2019 in agosto. Il suo modo di fare era sempre gentile ma anche sbrigativo. Capivi che ti voleva bene. Talvolta si inceppava forse a motivo degli strascichi di una cattiva malaria cerebrale di inizio anni ottanta o per una genetica e nativa semplicità evangelica che si manifestava in queste interruzioni, quasi a pensare ai gesti e alle parole. Qualcuno la scambiava per ingenuità. In quell’agosto ha voluto insolitamente abbracciarmi e salutarmi, chiaramente interrogandosi se ci saremmo rivisti. In marzo 2020 il covid rese chiaro che non saremmo potuti partire con un gruppo di studenti e nell’estate dello stesso anno, nella festa di Santa Chiara, l’undici di agosto è morto. Farò in modo di andare a visitare la sua tomba a Tosamaganga.
Saliamo su verso il centro di Iringa e giriamo a fare spese per la parrocchia e per il gruppo. Ripartiamo e ci dirigiamo verso sud, sulla strada per Mafinga. Infine imbocchiamo la strada per Mapanda. Io sono stanchissimo di stare in auto, ma penso a don Marco che è rimasto sempre alla guida e ha sopportato i miei silenzi nel sonno, ma soprattutto le mie chiacchere, quindi metto a tacere il mio superficiale lamento interiore. Sulla strada sterrata, ormai nell’oscurità notturna, le persone si attardano veloci verso casa a piedi o in bici, ma quando passiamo noi con l’auto, si girano di spalle e rimangono ferme. Vogliono evitare la polvere, che pur a moderata velocità solleviamo. Nelle case che incrociamo, all’esterno i bambini curiosi gestiscono il fuoco nei braceri di casa. Il buio, un postino distratto, inghiotte sempre di più le cartoline del paesaggio che non si imbuca più sui nostri finestrini. Ad un certo punto solo i fari, rigidi come pertiche, manifestano il mondo intorno.
Arriviamo alla casa dei padri, il gruppo già presente ci fa festa e ci accoglie. Andiamo a cena. Io sono un po’ ubriaco di stanchezza e ricordo solo di mettermi a letto. Come una ghigliottina il sonno che mi prende rende vaghe anche le ultime ore di veglia del lungo giorno.
Nessun commento:
Posta un commento