|
dall'aereo le nubi e la costa di Dar |
Altre ore di volo da Dubai a Dar, circa le stesse da Bologna a Dubai. Come un triangolo isoscele la cui somma dei due lati di ugual misura supera sicuramente il terzo, il mio sterminato itinerario intercontinentale mi fa toccare tre continenti in 24 ore: Europa, Asia, Africa. Superare il jet lag adesso è come bere acqua con due gradi più della grappa! Proverò a far finta di niente e riprenderò la giornata con un sonnellino pomeridiano in modo da azzerare il mio arrivo con l’aereo in Tanzania: mi risveglierò a Dar, in una stanza alla Salvation o al Kurasini, mi accorgerò delle lenzuola di cotone sintetico, sarà tardo pomeriggio e il sole in scivolata verso la porta del tramonto. Le pale del ventilatore faranno rumore e avrò le cose sparse sul tavolino, sulla sed
ia, a terra nello zaino. Penserò alle zanzare ma me ne occuperò più tardi.
|
Il "vecchio" TERMINAL dell'aereoporto |
Torno a fare attenzione all’abitacolo dell’aereo, si accendono le lucine FASTEN BELT, siamo entrati in fase di atterraggio. Ancora la videocamera del ventre, la riga sulla pista, il corridoio ombelicale per entrare in aeroporto. Infine i piedi toccano terra nel nuovo hub dell’International Airport Julius Nyerere (il vecchio è stato declassato a TERMINAL 2, costruito a partire dal 1979, inaugurato nel 1984 dallo stesso Nyerere di cui porta il nome, ha una particolare struttura, perché l’edificio principale, un parallelepipedo con ampie vetrate, venne circondato sui due lati più lunghi da un grande e arioso colonnato, dove i pilastri in cemento alti forse una decina di metri, sorreggono forme quadrate con scanalature e costole che partono dal pilone centrale e raggiungono i quattro lati del poligono anche questo di cemento, donando in forma stilizzata l’idea di essere dentro un palmeto della costa tanzaniana, un boschetto di palme che non riesce più ormai a coprire l’aumento di traffico aereo su questo paese, ricercato da molti turisti per le vacanze, e da meno scintillanti e dispendiosi affaristi che qui cercano come portare fuori dal paese beni e servizi che il grande Mwalimu Nyerere considerava un tesoro del popolo tanzaniano racchiuso nel forziere della terra per tempi migliori! Il sogno delle palme è ora destinato ai voli interni).
Fuori dall’aereo. Che poi significa dentro il salone dove sbrigare le pratiche burocratiche di ingresso. Siamo almeno una ottantina del nostro volo che passa la frontiera qui a Dar, gli altri hanno voli di connessione con altre zone del paese. Le file si riempiono in fretta davanti ai box degli ufficiali doganali. Io ne scelgo una che ben presto si rivela corta a causa della lentezza bradipotipica del controllore dei dati: ho davanti a me solo 4 persone, ma mano a mano che qualcuno si colloca dietro di me, arriva il poliziotto che presiede l’ordine e lo invita a prendere posto in un’altra fila, che guarda caso si sta svuotando prima della mia. E così pure le altre. Mi chiedo se valga la pena spostarsi, poi per un principio di correttezza verso il mio assertore di timbri per il passaporto. Resto fermo. E resto pure sempre l’ultimo della fila. Quando ormai sono rimaste una persona o due per fila -ce ne sono almeno 6 attive- e davanti a me ho ancora una persona in attesa ed una che il doganiere sta ancora confrontando con la foto del passaporto e a tiro incrociato con quella che sta riprendendo con la camera posta sopra lo sportello, decido di spostarmi e la mossa è vincente: sarò solo il penultimo a finire la pratica, dopo di me solo quello rimasto nella fila di Murphy. Non so se fosse il suo nome ma evidentemente conosce bene le sue regole per cui una fila lentissima ci deve essere. E gli altri doganieri ed il poliziotto devono conoscere bene questa sua passione per la legge di Murphy.
Comunque poco danno, perché il mio zaino manca ancora nella ressa attorno al nastro che trasporta i bagagli dalla pista alle timorate brame dei viaggiatori, sempre in bilico tra la cieca fiducia che le valigie usciranno e la impallidita rassegnazione di dover ricorrere all’ufficio dei bagagli smarriti. Ancora una decina di minuti mentre osservo altri che hanno particolari borse così grandi da contenere orribili dettagli di delitti di viaggio. Scatoloni sigillati con nastro adesivo marrone grande, ricuciti intorno da una rete di spago forte, sigilli apposti senza chiedersi come potranno essere riaperti a destinazione, ma essenziali per rendere quasi impossibile penetrarli durante il trasporto aereo nelle mani di magazzinieri anonimi tra uno spostamento e l’altro, digeribili solo dai macchinari che con i loro scanner sanno distinguere tutti i particolari intimi dei nostri bagagli. Poi penso al mio zaino che compare rivestito da un sacco nero di tela resistente e idrorepellente, che nel mio piccolo difendo con un lucchetto da diario segreto dei dolci orsetti del cuore. Nei miei calcoli è sufficiente a scoraggiare i ladri (nei miei sogni i ladri sono sempre pigri!)
Ultima fila allo scanner di uscita e adesso davvero mi trovo all’aperto. Un titolo fatto di nubi bianche, una sorta di vapore plastico come gelato di fiordilatte sul cono del cielo splendidamente azzurro, fa ripartire il mio racconto in Tanzania dopo gli anni di Covid e di attesa.
|
Dar sotto di noi |
C’è sempre gente del posto che attende gente che ha viaggiato. Più file di persone davanti alle transenne esterne che limitano la zona di uscita. Don Marco mi è venuto a prendere, lo intravedo tra le altre persone più per il cappello verde da pescatore che per il viso rosa. Sorridiamo e ci salutiamo, iniziamo a muoverci verso il parcheggio mentre parliamo senza ordine del viaggio, del gruppo già arrivato, di Dar es Salaam, delle cose diverse ora che da più di due anni governa Samia, la vicepresidente di Magu
fuli, morto ufficialmente il 17 marzo 2021. Per esempio gli ho fatto notare che all’interno del tempio di passaggio prima di uscire all’aperto, non avevo mai visto dei cambia valute. Erano sempre all’esterno, non ufficiali ma autorizzati a fare delle monete e delle equivalenze un’arte del proprio interess. Erano sempre vantaggiosi sulle banche. Don Marco mi racconta che la scelta del governo è stata di togliere i permessi a tutti i CHANGE MONEY e lasciare solo alle banche la possibilità di cambiare denaro. Probabilmente un modo per controllare speculazioni fuori controllo che non favorivano l’esercizio ordinario del cambio nelle banche.
Sono ormai le due del pomeriggio e con l’auto prendiamo la Julius Nyerere Road, direzione centro. Lavori in strada c’erano anche nel 2019, ora continuano se possibile ancora più energici, pervasivi, con l’intenzione irrisolta di favorire il traffico della città sempre più popolosa – fuori statistica tutti pensano che un abitante su dieci del Tanzania viva qua, cioè sei su sessanta milioni. Così se posso vedere realizzati molti cavalcavia e allargamenti di carreggiata, sono evidentemente insufficienti, ed i lavori che obbligano a rallentamenti aumentano il disagio. Per i 9 chilometri che percorriamo la Nyerere Rd., spesso veniamo rallentati da code di camion, mentre come formiche nascoste dall’erba nervosamente dirette a destinazione, fanno uno slalom pericoloso i bajaji (delle Api car provenienti dall’India e attrezzate al trasporto di 1-3 persone) ed i piki piki (motociclette di taglia media usate come taxi, raramente con il casco, i passeggeri possono variare da 1 a 4, con alcune combinazioni Tetris per cui ogni passeggero può essere sostituito da un carico legato dietro o davanti o in mezzo ai viaggiatori, autista compreso) mentre le auto, i pulmini chiamati dala dala, ed i camion stessi si muovono lenti come dinosauri capaci solo di rapidi e rischiosi cambi di carreggiata. Giriamo su Bandari Street per un chilometro e mezzo circa e poi prendiamo Mandela Road per i restanti 4 chilometri circa. Alla piccola circonvallazione che precede la nostra destinazione don Marco vuole stare attento perché se si imbocca l'uscita sbagliata si rischia di prendere la strada per Kigamboni, la lingua di terra che compone l’altra metà della costa di Dar, sulla quale si affaccia il porto con i docks per lo scarico e deposito dei containers. Per questi quasi 14 chilometri ci impieghiamo un’ora e più, e siamo fuori dagli orari di picco del traffico. Infine arriviamo al TEC - Kurasini Conference Centre of the catholic bishops in Tanzania. È uno dei due posti dove scendo e alloggio quando sono a Dar. Don Marco lo ha scelto per questi due giorni in cui ha accompagnato il primo gruppo di bolognesi a prendere il volo di ritorno.
|
Al muro della reception - TEC |
Il traffico complicato e la stanchezza che mi stordisce mi porta al riposo consigliato da Marco e che come progettato in aereo, sortisce il suo effetto. I polmoni di Dar sembrano volgere la propria fiducia al reticolo di catrame e asfalto ed al trasporto su ruote e benzina. Al TEC (Kurasini propriamente è il nome della zona in cui è costruito) mi sento un po’ difeso e custodito per il fatto che le strutture sono lontane dalla strada principale, altri 2 lati vanno verso l’interno del quartiere, mentre il quarto era sopra un canale d’acqua che ora si è trasformato nella circonvallazione che è scavata ad un livello inferiore rispetto al passato e incolto passaggio del torrentello, e questo sembra proiettarlo ad una sicura distanza da rumore e scarichi (ma quando lo chiederò ad una ragazza che lavora al chiosco proprio a ridosso di questo lato, lei mi spiegherà che le cose non stanno così. È solo un caso se quel giorno potevo fare
quelle constatazioni nelle quali rifugiavo la mia idea di Africa ancora preservata da inquinamento, e con una natura incontaminata anche nelle città. E dire che ho anche visitato gli slums di Nairobi e di Maputo!).
Dopo il riposo il sole è già sulla strada del riposo, ed io provo ad utilizzare il balbuziente wifi della casa per fare qualche telefonata, che completerò solo più tardi con l’aiuto dell’hotspot del telefono di Marco.
|
gechi in lotta sui muri |
|
La circonvallazione, lato est del TEC |
Usciamo alle 18,30 che è già imbrunito tanto da non vedere bene il sentiero buio che porta dalla casa verso la mensa per la cena. Ci fermiamo a metà: sul lato destro del giardino, tra gli alloggi e la chiesa, una edicola con spiazzo e sedute ci permette di celebrare il vespro all’aperto con i n
ostri splendenti cellulari dove leggere salmi e preghiere. A cena prendiamo ciò che resta (suore e altri presenti nella casa hanno fatto bene il primo raccolto) e mangiamo all’aperto vicino al chioschetto che si affaccia sulla circonvallazione. Ancora dialoghiamo, io e Marco, ora passando ad argomenti più precisi, Bologna, la parrocchia di Mapanda, la vita della chiesa felsinea, le persone che conosciamo, come stanno, come vanno le cose, chi è ancora e dove lo è. E qualche volte alla notizia dell’uno o dell’altro si manifesta un poco di stupore per cose che si pensavano o si speravano differenti.
Ora via a letto però, che domani si parte alle 5! Io preferisco stare ancora all’aperto, congedo Marco e prendo una soda da bere mentre sono seduto.
Al TEC le stelle sono diverse, perché ora siamo in Tanzania, sotto l’equatore. Già adesso voglio iniziare a notarlo, anche se le luci della città inquinano il buio notturno con il loro fiato di luce artificiale soffocante il debole riverbero degli astri, che da milioni di anni vorrebbero raccontarci con la luce come passano le loro vicende nell’universo.
|
il giardino con le aiuole del TEC |
È ora, vado anche io in camera e percorro al contrario il sentiero, ormai abituato al buio, vedo le aiuole curate e segnalate da bande larghe in bianco e nero. Palme e alberi locali adornano il debole parco. È fresco qua fuori ma siamo nella stagione che anche Dar è vivibile. Salgo in camera, compio le mie abluzioni, accendo le pale del ventilatore (le camere sono stretti rettangoli dove il letto corrisponde alla larghezza del bagno in camera, ed uno stretto corridoio che li mette in comunicazione è il resto dello spazio concesso), controllo ma sembra che di zanzare non se ne parli, comunque spengo la luce e con la mia piccola torcia entro sotto la retina che custodirà il mio sonno stanotte.
Nessun commento:
Posta un commento