Papa Francesco

"Voi sapete, cari giovani universitari, che non si può vivere senza guardare le sfide, senza rispondere alle sfide. Colui che non guarda le sfide, che non risponde alle sfide, non vive. La vostra volontà e le vostre capacità, unite alla potenza dello Spirito Santo che abita in ciascuno di voi dal giorno del Battesimo, vi consentono di essere non spettatori, ma protagonisti degli accadimenti contemporanei. Per favore, non guardare la vita dal balcone! Mischiatevi lì, dove ci sono le sfide, che vi chiedono aiuto per portare avanti la vita, lo sviluppo, la lotta per la dignità delle persone, la lotta contro la povertà, la lotta per i valori, e tante lotte che troviamo ogni giorno." Papa Francesco

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lunedì 9 ottobre 2023

VIAGGIO IN TANZANIA (2023): FOSSE SOPRAVVISSUTA, SAREBBE TORNATA! e LE STRADE STERRATE, LA GOBBA IN GIU’


Sabato 19 agosto - 
4° puntata


FOSSE SOPRAVVISSUTA, SAREBBE TORNATA!

Il cantiere
Per me prima sveglia a Mapanda. Il gruppo raggiunto ieri è ormai qui dall’11 agosto, anche se la partenza da Bologna risale a due giorni prima. Siccome sono l’ultimo arrivato mi tocca il letto al piano superiore, che consta di una banda di legno ad impedire la caduta notturna dal letto, per me anche la discesa! Così quando decido di scendere salgo cavalcioni con le gambe la suddetta asse di legno e poi faccio un balzo giù particolarmente atletico. “Cosa cerchi sotto il letto?” mi fa don Enrico che si gira dall’altra parte in attesa del momento buono per alzarsi e trovare il bagno libero (uno in sei). “Zitto, Zitto!” dico mentre mi giro per tirare il braccio fuori da sotto il fianco destro. Effettivamente sono steso tutto lungo per terra e ho la testa sotto il letto di fronte al mio. Mi tengo la costola sbattuta fino a oltre metà settembre: nessun problema di giorno, ma di notte sembra di avere un gancetto elastico attaccato al diaframma che appena ti muovi inizia a litigare con tutte le fibre del costato e finisco per cercare una posizione fetale da conservare tutta la notte!
Liquidato l’argomento costola, fatte le nostre abluzioni e i disciplinati bisogni in bagno
, andiamo alla messa con le suore e poi a colazione. Attraversiamo scendendo sullo stradino che conduce alla cappellina nella loro casa, e dovendo passare accanto al cantiere della nuova chiesa in costruzione, sbircio sopra le onduline che arginano la vista dall’esterno di una struttura le cui parti in muratura, corpo principale dell’edifico, sembrano già concluse. È ancora presto e il sole umido che c’è al mattino quassù a Mapanda non aiuta a dare limpide occhiate alle cose. Aspetterò più tardi e dopo colazione farò un giretto con don Lino, altro ospite come me, amico di lunga data con don Marco il vice della parrocchia. Alla messa non sono ancora pienamente lucido ma lo strumento naccheroso, in mano alle suore, riesce ad illuminare la liturgia pianamente in swahili. 
Colazione: la casa dei padri è la prima che si incontra arrivando da fuori e sembra interrompere il flusso della strada, che invece gli continua di fianco, sul retro. Tutte le costruzioni trovano sede nella zona a dorso di una collina che è sopra il torrente da cui arriva buona parte dell’acqua in uso, direi per tutto eccetto per bere e cucinare, che invece sale da un pozzo scavato meno di dieci anni fa. Come pure da non molti anni la corrente elettrica non viene più dal generatore ma dalla rete nazionale, che filo dopo filo, in un progetto di elettrificazione dei villaggi più sperduti, almeno fin qui è arrivata. La casa dei padri ha di fronte a se, perpendicolare, la cucina con la sala per consumare i pasti. Di seguito ma separata, si sta costruendo una speculare casa per gli ospiti. Oltre, ma più in basso rispetto alla casa dei padri, il garage ed il magazzino. Guardando il garage, sulla destra si trovano la casa delle suore e la casa delle ragazze che lavorano in cucina. Sul lato della collinetta opposto a quello di arrivo, ci sono, quasi a formare una lettera “H”, tre grandi edifici. Quello centrale usato ancora come chiesa fino al completamento di quella ufficiale. I due edifici laterali servono per alloggiare uomini e donne provenienti dai diversi villaggi della parrocchia, durante gli incontri residenziali che si svolgono qui. La nuova chiesa si sta costruendo sul lato di arrivo della collinetta, più o meno tra la casa dei padri e quella delle suore. Sulla strada che arriva in parrocchia, dimenticavo, è stato costruito un asilo. Da lontano ora si inizia a vedere il campanile come una prua in mezzo al verde e alle case del paesaggio ondoso di queste colline d’altopiano. La mappatura è fondamentale per muoversi e ci si fa l’abitudine dopo un giorno o due. Entrati a colazione sento che l’umore generale è ancora carico di aspettative ed il gruppo conserva ancora intatto l’entusiasmo dei primi giorni di viaggio, quando le novità dei luoghi, persone e situazioni, spingono a vivere un sano ottimismo verso il mondo e la vita. Oppure se non si riesce a staccare il cordone ombelicale, fanno piombare in nervose pratiche di sopravvivenza che nascondono la nostalgia di casa e l’impazienza di tornarci presto. Ma in fondo tutti noi partiti da due o tre settimane, siamo turisti in vacanza, non come nel film di Jarmusch, quando il protagonista prende casualmente una nave e parte neanche lui sa dove, ma sta lasciando la sua città e per definire questo distacco non la saluta dicendole addio, ma denunciando la sua vita fino a quel momento soltanto una vacanza da cui partire verso un’altra vacanza. Sul ponte, guardando la scia in mare, il porto ed i palazzi, i gabbiani al vento, dirà: “I’m a tourist in permanent vacation!”. Non è il nostro caso.
La chiesa di Santa Teresa a Uhafywa - dentro



e fuori

Oggi la giornata prevede un colloquio con Mama Francesco – le donne spesso vengono indicate attraverso la loro maternità ed il nome della figlia o del figlio -. Una strada ci porta a Uhafywa attraversando boschi, il cui legname come fosse nodoso granoturco è fonte importante per il reddito locale. La chiesa è dedicata a Santa Teresa del bambin Gesù. Una chiesa piccola e ancora sufficiente, costruita sulla strada in salita di fronte al paese che sale sulla strada a lei speculare. C’era un albero ombroso davanti all’ingresso, ma un fulmine l’ha colpito e abbattuto, caricando l’evento di ombre differenti, ombre negative, che alcuni eventi tragici sembrarono avallare. Lidia Yakumbi, cioè mama Francesco, è una donna minuta, con un viso tondo. È una lottatrice a dispetto del suo corpo ed il suo sorriso è il pugno più forte che senza violenza ci fa capire quanto sia stata dura eppure abbia scelto di restare -dopo la morte del marito- e continuare la presenza come catechista -figura chiave nella vita comunitaria della chiesa locale. Tutto sommato è anche molto giovanile pensando ad una età che dovrebbe essere vicina a quella mia e di don Enrico.
Mama Francesco

Nella sua casa, un lungo colloquio con lei ci offre lo spazio per entrare comodamente nella storia dei cristiani di questo villaggio, sapendo che chi ci accompagna ne è testimone diretta. Questi gli appunti:

“La chiesa cattolica ha una presenza relativamente recente, nel 1986 il primo cristiano battezzato. Erano 5 in tutto in quell’occasione ad essere battezzati e con loro è iniziata la chiesa qui, con il sostegno di catechisti e dei padri che arrivavano da fuori. Erano 5 donne. Io sono stata nel secondo turno dei battezzati. Prima che ci fossero battezzati c'era il catechista che veniva ad evangelizzare. Poi altri due da Usokami che continuavano la evangelizzazione.
Ma prima di tutto questo va detto che una infermiera ed un maestro, mandati qui dal governo, che erano cristiani, di fatto hanno iniziato l’evangelizzazione.
Con questi battezzati pregavamo a scuola tenendo sempre informato padre Tarcisio.
Romanus era il catechista e diventò suo marito; quando morì lei prese il suo posto. Lei battezzata a 20 anni, i genitori  erano pagani e lei da sola ha cercato la fede. Qui nel villaggio ha ricevuto le prime catechesi, poi all’approssimarsi del battesimo andava a piedi fino ad Usokami, la sede della parrocchia. Sono 12 ore a piedi fino ad Usokami. Cercò un modo anche per potersi fermare in parrocchia e perciò entrò nella scuola di suor Antonina, il Mandeleo, cioe l’educazione base offerta alle ragazze per poter avere un progresso nella propria vita: scrittura, matematica, e poi tante materie pratiche. Se hai bisogno di sacramenti qui cammini: il tuo bagaglio sulla testa e poi parti.
Tutte donne nei percorsi catecumenali, all'inizio. Nella chiesa cattolica ci sono più mamme che papà. Il contrario nell’Islam. Adesso però anche qui le mamme stanno lasciando la pratica della fede. 
Per essere catechista: per prima cosa si deve sentire una vocazione di fare il catechista poi occorre andare a studiare a scuola o fare corsi in diocesi.
Finita la scuola, la persona viene investita dell’incarico di catechista. Bisogna dire però che sono anche gli altri catechisti o i responsabili delle comunità che vedendo un ragazzo o una ragazza che si prodiga nel servizio parrocchiale, gli propongono il percorso per diventare catechista.
Un catechista deve insegnare ai bimbi e agli adulti e deve occuparsi anche dell'ora di religione a scuola. Nelle domeniche in cui il padre(cioè il prete)  non viene, è il catechista a fare la liturgia della parola e l’omelia.
Dei quattro catechisti iniziali, due hanno cambiato casa ed uno è morto. A quel punto lei è rimasta sola.
Poi abbiamo trovato un giovane di Igeleke (un altro villaggio della parrocchia) che è disposto, terminati gli studi a trasferirsi qui in aiuto. Così ora vive qua e ha un suo campo, ma ancora non è sposato.”

Dopo Lidia parla il presidente dei laici di qui, Boniface Muweni.

“Chi fa il lavoro dentro una comunità ecclesiale? Il gruppo dei laici insieme a quello dei catechisti.
Quando dico Kigango indico la comunità della chiesa cattolica di un villaggio, che non corrisponde al villaggio nella sua interezza, perché potrebbero esserci persone anche di altre religioni.
Il Kigango è diviso in settori, chiamati piccole comunità di base, in swahili jumuia ndogo ndogo. Il catechista si muove tra le varie jumuia per vedere se si trovano e se pregano insieme leggendo il Vangelo. Così visita anche gli ammalati. Questo è il loro lavoro pastorale.
Poi c’è il gruppo dei laici che sono responsabili: il capo, il vice, l’economo. Presiedono a tutti gli altri lavori, per esempio a raccogliere i contributi, al lavoro nei campi del kigango: si arrangiano così per finanziare le necessità materiali delle loro attività pastorali. Se le spese sono grosse, allora entra in campo la parrocchia. Per esempio: un anno con poche piogge vanifica buona parte del raccolto. Procurarsi il cibo può diventare una grossa difficoltà. All'inizio le comunità di base aiutano gli anziani, ma se la pioggia no arriva ancora, allora il kigango e poi la parrocchia, entrano in campo, comprando farina da distribuire.
Boniface risponde ad una nostra domanda sul rapporto con gli altri cristiani presenti sul territorio:
“Con i luterani il rapporto è buono, si sono moltiplicate le occasioni di preghiera comune o la compresenza ad alcuni funerali.
Diverso il discorso coi pentecostali carismatici, coi quali il rapporto è difficile.
Tempo fa nacque un problema con il nuovo pastore luterano, che faceva il “battesimo gratis” cioè senza catechismo. Per cui si è diffuso, ma qualcuno ha rifiutato
Stregoneria? Ma tutti ci credono! Sigh!
Qui da loro la chiesa più numerosa è quella luterana poi c’è la cattolica infine i pentecostali. Il villaggio civile ha circa 2000 abitanti. Non ci sono musulmani.
Anche qui c'è chi si vergogna di essere cristiano. Altri con coraggio si manifestano e danno testimonianza.
Anche qui c’è un problema per i giovani. Il mondo è globalizzato per cui assorbono di tutto attraverso il telefonino, e dopo la cresima prendono le distanze dalla chiesa.
Così non siamo molto distanti dall’Italia. Non trovano posizione solida. Iniziano poi lasciano si perdono. Lo si vede sul discorso matrimoniale non trovano posizione solida nella loro vita.
Un esempio anche nel mondo del lavoro: una persona studia ma poi fatica a trovare un lavoro fisso e deve sempre girare. Per cui non riesce a mettere su famiglia.”
Dal villaggio osserviamo la chiesa sulla collina opposta


Lidia ci offre il pranzo. Poi nel pomeriggio visitiamo una scuola nel villaggio, una primaria. Oggi ci sono quelli che devono sostenere l’esame finale. Studiano, ma il tempo applicato al gioco -così li troviamo al nostro arrivo dopo pranzo- è ancora quella felice possibilità di dare senso alle loro amicizie, alle loro giornate. E perché no! Alla loro vita.

Kapirita


Rientriamo prima del calare del sole e aspettiamo la cen
a nei dialoghi tra dentro e fuori la casa dei padri, dove siamo alloggiati. Kapirita, il cane più anziano della parrocchia, sgambetta con la zampa anteriore destra completamente ribaltata all’insù: fa impressione ma qui dicono che ormai sono anni che è così. Nessuno sa dire come sia successo. C’è anche una gattina piccoletta, con tre cucciolini dediti al sonno, al latte e alla confusione. Vivono più dentro che fuori, e questo ci rassicura dai topi. Almeno un po’. Vive qui anche un gattone, maschio, figlio di una precedente nidiata della micetta. Forse padre dei tre divertiti cuccioli. Lei non ha più l’occhio sinistro. Un buco cicatrizzato al suo posto. Ormai abituata, non sembra darle noia in alcun modo. Don Davide dice che le si era gonfiato l’occhio da far paura, poi un giorno è scomparsa e quando è tornata non aveva più l’occhio ma stava bene. “Credo che si sia allontanata per rischiare di toglierselo in qualche modo che non voglio sapere e se fosse sopravvissuta, sarebbe tornata.”
Così ha fatto. 
Non tardi io vado a dormire: la bontà di Fabio mi fa riposare ora nel letto al piano terra!




Domenica 20 agosto - 5° puntata

LE STRADE STERRATE, LA GOBBA IN GIU’

Oggi è domenica, si va a messa. Qui si celebrano due messe a testa, calcolando i tempi di spostamento e organizzando il viaggio in modo da riuscire a celebrare la prima alle 8 e l’altra alle 12, ruotando settimanalmente tra le chiese nei kigango in modo che ogni mese, almeno una volta i padri passino per tutti i villaggi della parrocchia.
Traffico

Con don Enrico, io, Mariangela e suo marito Andrea, andiamo prima a Kisusa, succursale del lontano villaggio di Ukami e poi a Chogo, molto più vicina alla parrocchia. Ci accompagna suor Grazia. Partiamo alle 6,30 del mattino. Non si fa colazione: dopo la prima messa se possono ci offriranno qualcosa. Ci daranno del tea bollente e i mandazi, frittelle dense di pasta un po’ dolce, una specie di bombolone ma senza lievito e soprattutto senza crema, eppure efficace per saziarti.

Man mano che ci avviciniamo alla chiesa, imbarchiamo persone che a piedi stanno andando a Kisusa. Mariangela e Andrea sono seduti dietro, usano dei sacchi con mais credo. Ad un certo punto lei è sepolta di bimbi. Andrea si trova in braccio una signora con un vistoso cappello fatto di stoffa arrotolata. Arriviamo ma non alla chiesa, cui si arriva a piedi svalicando la collinetta dove abbiamo parcheggiato.

Tra bambini, donne e qualche uomo, ci saranno almeno una sessantina di persone. Non sono molti anni che hanno costruito questa chiesetta, sobria, essenziale. I bimbi tossiscono spesso, qua è freddo sugli altipiani. Ci guardano smarriti più che curiosi. Se vuoi mettere paura ad un bimbo tanzaniano, digli che arriva l’uomo bianco, che quello nero è il nostro spauracchio venato di razzismo culturale.
La chiesetta di Kisusa
Entrano mamma e bimba con abiti tagliati dalla stessa stoffa, per cui affiancate fanno un effetto strano, come di corpo che non ha più i confini del corpo.
Oggi c’è l’appello dei bimbi che verranno battezzati. Silenzio e sottovoci delle persone sedute nelle panche accompagnano le risposte dei presenti
Entra una bimba Albina con vistoso cappellino fuori misura, obbligato tendaggio per evitare l’effetto mortale del sole sulla loro pelle. Il canto corale inizia e perciò assolve alla fusione assemblea.
La messa a Chogo
Durante la fine della prima lettura e l’inizio del salmo, mi accorgo che un bimbo ha fatto pipì sotto l’ambone, ha i calzoni bagnati e a terra sopra lo stuoino del liquido è comparso ad addensare le polveri che i piedi, più scalzi che vestiti, scaricano a terra prima di assumerne altra.
A fine messa, durante la colazione improvvisata su una panchina della chiesa, un bimbo si avvicina, vuole un mandazi, ma lo vuole pagare. Al rifiuto di prenderlo gratis, abbiamo accettato le monete: fuori oggi nessuno è arrivato a venderli e a lui è venuta fame. Ha un gemello vestito in maniera identica e altrettanto abile a non rimanere mai fermo. Durante la messa la madre prova ad affibbiarne almeno uno agli altri bimbi sotto l’altare, ma lui torna indietro. Forse non ha gradito l’umidità a terra!

Andiamo a Chogo, dove il vento trasporta l'odore degli eucalipti dietro la chiesa fino alle nostre posizioni che iniziano ad essere stanche (la messa inizia a mezzogiorno e quindi non mangeremo prima delle 15-15,30). La chiesa è più grande e quando nel 2016 sono state cambiate le finestre e tinteggiato alcune zone del muro, anche io ho dato la mia impronta. 
Oggi al coro sono presenti i bambini del coro di Mkumbulu, che sembra lo zecchino d’oro in persona. 

Dopo messa intervisto un catechista, Alton, che è qui dai primi del 1986. Alton è stato battezzato nel 1977 da don Giovanni Cattani. Catechista dal 1984. Lui è di Mapanda. Il prossimo anno sarà il 50esimo dalla presenza di preti fidei donum bolognesi qui in Tanzania e mi occorre del materiale per imbastire con gli altri questo tempo di festa.

Rientriamo dopo aver mangiato Ugali-polenta bianca, verdure e un poco di carne.
Serata siamo stanchi e dormiamo presto. Le stelle notturne, il riposo e le risate serali. La luna mi accorgo, ha la gobba in giù.


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